La tomba degli Imperi
Nel 1919 la sconfitta dei britannici in Afghanistan segna l’inizio della fine del colonialismo europeo. Le guerre contro l’Emirato afghano saranno uno shock per il Regno Unito, producendo le prime vittorie laburiste e pagine di grande letteratura inglese. Nel 1989 la ritirata dei sovietici da Kabul segna il punto di rottura verso la caduta dell’URSS. L’invasione era durata 10 anni, preceduti da altri 5 di presenza militare nella Repubblica Democratica dell’Afghanistan.
I sovietici invadono il territorio afghano nel ‘79 per rovesciare uno dei loro, il presidente Amin, capo della fazione “Khalq”, i comunisti massimalisti afghani, per rimpiazzarlo con il più allineato Karmal. Mosca credeva che l’approccio più graduale di quest’ultimo, tollerante verso alcune delle tradizioni feudali afghane, avrebbe fatto guadagnare popolarità al modello socialsita. Così non è stato. L’invasione cementifica l’unità delle tribù ribelli nell’alleanza dei mujahideen, che di fatto cacciano i russi dal paese. Il governo che ne segue è sempre guidato da un comunista, il lungimirante Najibullah, che promulga una nuova costituzione democratica e multipartitica, aperta al contributo delle opposizioni. Ma agli Stati Uniti, che nel frattempo avevano finanziato i mujahideen in funzione anti-sovietica, non basta. Vengono foraggiate le correnti più estremiste, i futuri talebani, all’interno di una spietata guerra civile. Nel 1996 il compagno Najibullah viene prelevato dai talebani dalla sede ONU – sotto lo sguardo passivo dei caschi blu – e barbaramente torturato e ucciso su ordine diretto del mullah Omar. L’11 settembre 2001 è alle porte.
Dopo altri 20 anni di guerra, oggi la coalizione a guida USA si ritira dall’Afghanistan e i talebani tornano a Kabul. E’ l’ennesima sconfitta dell’Impero su queste montagne, che avrà ripercussioni in tutto l’Occidente. La proverbiale resistenza afghana contro ogni invasore, tuttavia, non porta il segno dell’identità religiosa né di quella nazionale, ma porta il nome di pashtunwali: antichissimo codice di valori della gente pashtun, che da etnia dominante ha saputo adattarlo alle diverse ideologie nei diversi momenti storici. L’Afghanistan è un paese multietnico, che sarà governato ancora una volta da una piccola fazione di pashtun, i talebani, che non rappresentano la totalità della nazione, né la totalità dei pashtun, né la maggioranza dei musulmani afghani. Mentre i salafiti, Al-Qaeda, Daesh, sono movimenti pan-islamisti, quindi universalisti e globali, al contrario i talebani sono un gruppo monoetnico. Li muove un’idea di suprematismo razziale pashtun, portata avanti attraverso lo strumento di una sharia di stampo deobandi molto peculiare, che da una parte impone il burqa e dall’altra tollera tradizioni tribali che altri gruppi islamici considerano eresie.
Buona parte della popolazione rurale, se non è proprio a favore dei talebani, comunque li considera migliori della classe politica precedente. Questo video mostra l’entrata dei talebani dentro lo sfarzoso palazzo di Rashid Dostum, uomo politico tra i più influenti, padrone di Mazar i-Sharif e potente signore della guerra. Il suo partito, tra l’altro, è considerato l’unico in qualche modo “progressista”, avendo incorporato al suo interno buona parte dell’élite filo-sovietica degli anni ’80. Mentre a molta della nostra intellighenzia di sinistra piace crogiolarsi nell’idea che l’Afghanistan comunista fosse migliore di quello attuale, la stragrande maggioranza degli afghani associa quel periodo alle opulenze dei warlords riciclati di città, passati dall’appoggio all’Unione Sovietica al sostegno agli USA ed oggi scappati in altre regge dorate oltreconfine. Tutto ciò mentre il 90 percento degli afghani di tutte le etnie vive in condizioni di povertà inimmaginabile, senza cibo, acqua potabile, elettricità, servizi sanitari basilari.
I talebani si presentano come gente del popolo. Il che non significa che non hanno elevate possibilità economiche, visto che il mercato dell’oppio gli ha permesso di trasformarsi in questi anni da milizie di estremisti di montagna a raffinato corpo politico-militare chi siede alla pari con i leader mondiali. Si è visto alla loro prima conferenza stampa, i talebani parlano tre lingue e maneggiano concetti di politica estera e questioni legate ai social-media, cosa impensabile 20 anni fa. Ma non ostentano ricchezza né prosopopea. Vestono con abiti dismessi e tradizionali. Hanno consulenti e portavoce in ottimi rapporti coi media occidentali, che sanno cosa dire sulle donne, sull’armistizio e sulla libertà di stampa. Nella città di Herat sotto i “talebani 2.0” le donne sono rientrate a scuola, indossando un semplice chador. Al contempo, nella provincia di Bamiyan, i nuovi padroni di casa hanno abbattuto la statua di un famoso leader hazara, minoranza etnica spesso perseguitata dai pashtun. Ennesimo sintomo delle vere priorità politiche dei talebani, che potrebbe dire tanto sul futuro governo dell’Emirato islamico.
Non mancano le resistenze al nuovo regime. Nel nord del paese, com’era prevedibile, si sta riorganizzando la valle del Panjshir. Siamo in casa della cospicua minoranza tagika, da sempre in guerra contro chiunque minacci la propria autonomia. L’ex leader di questa valle, eroe nazionale per un certo patriottismo moderato e inter-tribale, era Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, ucciso da mercenari sauditi due giorni prima dell’attentato alle Torri gemelle. Oggi suo figlio ha raccolto l’eredità del vecchio warlord, ponendosi come alleato dell’Occidente ma con una sua certa indipendenza. Non a caso, mentre l’esercito regolare si disperdeva e le altre milizie si arrendevano, la valle del Panjshir rimaneva l’unico baluardo fuori dalle mire talebane. I barbuti, per ora, nemmeno lo attaccano. Chiunque nel paese abbia deciso di ignorare gli accordi di Doha e organizzare il confronto armato contro i talebani, è andato in Panjshir sotto l’ala di Massoud. Tra questi, l’ex vicepresidente e l’ex ministro alla difesa. Da questa nuova coalizione, è nato il 16 agosto il Fronte Nazionale di Resistenza dell’Afghanistan. Di appoggio internazionale ne hanno ben poco, ma in un contesto quanto mai fluido e ambiguo nei rapporti di forza tra superpotenze vicine, tutto può succedere in futuro.
Infine, la resistenza civica e nazionale per le strade di Jalalabad. Centinaia di persone in questi ultimi giorni sono scese in strada a seguito della rimozione, da parte dei talebani, di una bandiera nazionale afghana dalla piazza di Jalalabad, sostituita con quella del movimento, bianca con la “testimonianza di fede” scritta in nero. La comunità cittadina è andata a riportare la vecchia bandiera tricolore al suo posto, marciando per le strade e sfidando il fuoco delle forze talebane, che hanno fatto almeno tre morti tra i manifestanti. Jalalabad è un crocevia commerciale e un simbolo del patriottismo afghano, città dove si svolgono le cerimonie annuali per celebrare l’indipendenza dagli inglesi, che cadono oggi, 19 agosto, e dove i festeggiamenti sono stati teatro di ulteriori proteste e scontri. Questo luogo, centro della cultura pashtun, potrebbe rappresentare il primo vero problema per il governo talebano, proprio perché legato a questi valori. Qui la rabbia non è orchestrata da leader tribali, il risentimento non viaggia su base etnica. Lo stesso codice etico del pashtunwali, che non è certo un’esclusiva dei talebani, prevede l’obbligo di dare asilo a chi fugge e di ribellarsi sempre alla tirannia. Ciò che Jalalabad sta difendendo è il simbolo in cui si riconoscono tutti gli afghani, di ogni lingua, cultura, pedigree: il tricolore nero, rosso e verde.
E’ difficile in questi giorni non cedere al fascino delle banalità. Oggi non è il Vietnam ma non è nemmeno la vittoria del jihad mondiale. I danni prodotti dall’imperialismo sono così profondi che dovranno passare decenni prima che nasca una classe politica in grado di mettere intorno a un tavolo tutti, con l’obiettivo di darsi un paese sovrano, in pace e senza sopraffazioni. Siamo in un contesto mediorientale e islamico che vede cadere gli stati nazionali postcoloniali, uno dopo l’altro, con pochissime alternative rispetto al ritorno delle piccole identità tribali e claniche, ognuna delle quali sotto la protezione di nuovi Imperi subcontinentali. Resta sul campo la sofferenza del popolo afghano, la gente comune, le donne, le minoranze, i rifugiati cui vengono voltate le spalle dai nostri paesi colpevoli del disastro. In questa terra impervia con una posizione strategica sullo scacchiere asiatico; un nuovo equilibrio geopolitico dove Cina e Turchia stanno egemonizzando il terreno economico e militare; un’importante disponibilità di oppio che fa gola alle mafie ma anche alle case farmaceutiche; una gigantesca riserva di litio indispensabile per far funzionare i nostri comodi smartphone.
L’alternativa cova nelle strade polverose e nell’intelligenza dei popoli che sanno essere un attore geopolitico di primo piano, soprattutto in contesti come questo. Da parte nostra possiamo agire gli strumenti che ci pongono alla pari con questi popoli, senza la pretesa di esportare alcunché. Scrollandoci di dosso ogni residuo di superiorità culturale, praticando solidarietà, internazionalismo e sorellanza. Dalle catene ci si libera insieme, dalle nostre catene come da quelle che affliggono l’altro. Un sincero agire rivoluzionario inizia con il contatto umano: conoscere i nostri vicini nati in posti lontani e travagliati, nei quartieri e nei luoghi di lavoro, con la consapevolezza che ognuno e ognuna di loro ha vissuto sulla propria pelle una parte di quelle storie, che vanno rispettate e custodite. Lottare insieme, per i nostri diritti comuni, qui e ora, e per le patrie lontane dei nostri compagni. Senza nessuna delle lenti ideologiche che ci portiamo appresso anche in queste ore di vicende complesse da interpretare.
Impariamo dall’Afghanistan come si sconfigge un Impero; impariamo dal pashtunwali a rispettare lo straniero, la natura e la parola data, prima di pretendere di insegnare loro qualsiasi cosa noi crediamo imprescindibile. Così facendo, forse un giorno scaveremo insieme la tomba per gli Imperi del patriarcato, del razzismo, dell’olocausto ecologico, del dio denaro che genera iniquità, della dominazione degli esseri umani sui propri simili e sul pianeta terra.