Botswana, il paese africano che si è aiutato a casa sua (senza di noi)
Aiutiamoli a casa loro, dicono. Innanzitutto, diciamo noi, va premesso che una giusta accoglienza di chi emigra in cerca di una vita migliore prescinde dall’esigenza di creare le condizioni affinché nessuno in futuro debba scappare da fame, guerre o repressione. La necessità che nessuno muoia in mare, la libertà di movimento per i lavoratori, la lotta allo schiavismo e al caporalato, saranno sempre le condizioni imprescindibili delle nostre lotte insieme ai popoli oppressi, al contrario di quanto sostiene la propaganda di chi ci governa. Porre le due cose in antitesi significa essere in malafede. Detto ciò, i metodi efficaci per “aiutarli a casa loro” sono solo due: o si fa come Karim Franceschi e Vittorio Arrigoni, andando ad aiutare le lotte popolari in loco, o si fa come Seretse Khama. Ferma restando la validità della prima soluzione – nel caso di Arrigoni pagata col sangue – è interessante sapere chi era Khama, primo presidente del Botswana, l’unico paese africano dal quale “non partono migranti”.
Il Botswana ha raggiunto l’indipendenza nel 1966 grazie alla strategia politica del leader tribale Seretse Khama, avvocato laureato a Oxford, che ha saputo approfittare degli equilibri internazionali tra Inghilterra e Sudafrica per garantire al suo paese la piena sovranità sulle sue risorse naturali. Grazie a un’intensa guerra burocratica con Londra e Pretoria, a seguito del matrimonio di Khama con una donna inglese, il Botswana per anni è stato in grado di gestire e sfruttare a proprio beneficio le sue miniere di diamanti, tra le più ricche ed estese del mondo. Dopo qualche anno di crescita delle esportazioni, Seretse Khama stipulò con il potente vicino sudafricano una serie di accordi per le concessioni minerarie, ormai da una posizione di parità di forze. Così facendo favorì ulteriormente l’indipendenza commerciale del paese dagli interessi europei, in un’ottica africanista ma neutrale: Il Botswana permetteva ai gruppi guerriglieri vicini di attraversare il suo territorio ma non di stabilirvi le proprie basi, divieto che valeva per qualsiasi esercito regolare straniero, con l’obiettivo di mantenere una neutralità tale da non dare adito ad intromissioni esterne o aggressioni militari. Questa strategia, dopo la caduta dell’apartheid sudafricano, venne considerata vincente e copiata esplicitamente da Nelson Mandela stesso. Khama in vita venne ammirato da nazionalisti, comunisti, pan-africanisti e democratici di tutto il mondo.
Oggi il Botswana ha il welfare migliore e l’economia più dinamica di tutta l’Africa. Dopo anni di politiche rivolte alla crescita interna, una volta raggiunti livelli sociali soddisfacenti, negli anni 2000 il paese ha dato concessioni ad alcune imprese euro-americane per lo sfruttamento dei giacimenti di uranio, oro e petrolio, ma le multinazionali devono comunque fare i conti con la proprietà pubblica dei giacimenti, con le regole ministeriali sulle concessioni e con gli alti standard salariali dei lavoratori. Se un paese europeo applicasse oggi il regime fiscale del Botswana per le imprese minerarie straniere (fino al 55% + le royalties) si griderebbe allo scandalo e all’ambiente insalubre per gli investimenti! In realtà è un concetto semplice per un paese con queste caratteristiche: se vuoi le mie risorse di qualità, me le paghi. Tutti i diamanti continuano ad essere estratti da un’azienda partecipata al 50% dallo Stato. Così, negli stessi anni in cui i diamanti della Sierra Leone attiravano gli interessi imperialisti, scatenando una delle più atroci guerre civili d’Africa, le miniere diamantifere statali del Botswana diventavano la chiave della stabilità di questo paese.
Il Botswana non è un paese socialista. Anzi, è governato da una classe politica liberale, che però ha capito che l’unica maniera per creare equità in un’ex colonia era continuare sulla strada dell’indipendenza economica. La democrazia parlamentare soffre come in tutto il continente per l’egemonia di un partito maggioritario, il Botswana Democratic Party, ma i governi hanno mantenuto intatte le strutture locali di democrazia diretta, tipiche del popolo Tswana, per cui ogni villaggio si autogoverna in assemblee dette kgotla. I bianchi sono il 3% della popolazione, non sono scappati via come in Zimbabwe, ma non sono nemmeno una ricca classe latifondista come in Sudafrica: sono cittadini lavoratori benestanti e vivono per lo più in città. Il settore pubblico, oltre ad essere preponderante, è uno dei meno corrotti, più trasparenti e meritocratici non solo dell’Africa, ma del pianeta intero.
Ebbene, tutte queste cose insieme hanno reso il Botswana il paese africano con meno emigrazione in assoluto. Non parte quasi nessuno per fame o per disperazione. Naturalmente i problemi non mancano: l’opposizione di sinistra (nella foto) lotta per una società più giusta soprattutto sul piano dei diritti civili; si comincia a porre la questione della diversificazione economica, l’industria estrattiva non sarà eterna e soprattutto inizia a creare problemi socio-ambientali (in un paese fatto al 39% da parchi e aree protette). Ma di fatto, ad oggi, gli unici che lasciano il paese sono lavoratori ultra-specializzati che vanno in aziende americane o canadesi. Una piccola percentuale di lavoratori agricoli oltrepassa il confine, per lo più stagionalmente, per lavorare nelle ricche piantagioni del Sudafrica. Al contrario, il Botswana accoglie migliaia di immigrati dagli altri paesi africani e dall’Asia, attratti dagli standard sociali elevati e dalle opportunità che il paese offre. In Botswana convivono decine di etnie e di lingue diverse, ma sono sempre più frequenti i matrimoni misti e il concetto di cittadino batswana indica oggi, con una sola parola, indistintamente tutti i membri della comunità dello Stato.
Cosa ci insegna la storia del Botswana? Semplice. Che gli europei, se vogliono aiutare gli africani a casa loro, devono smetterla di depredarli. Finché Eni, Benetton, Enel e compagnia bella continueranno a rubare risorse non nostre, aspettatevi che i padroni di quelle risorse, i popoli africani, verranno a reclamare ciò che spetta loro. Finché le potenze europee, Italia compresa, continueranno a giocare sullo scacchiere africano per sistemare governi fantoccio e cani da guardia militari, le popolazioni scapperanno via, loro malgrado, dalle Patrie che noi gli stiamo distruggendo. E’ vero pure, d’altra parte, che la formazione di leader africani capaci e coscienti, come fece il mondo accademico dei paesi industrializzati nel secolo scorso facendo studiare i vari Khama, Nkrumah, Mandela, è una questione che la pigra intellighenzia europea dovrebbe tornare a porsi. Altrimenti a farlo ci penseranno solo i nostri governi ipocriti, interessati all’empowerment di leader incapaci e sanguinari per tutelare il tornaconto economico (ed elettorale) del peggior capitalismo predatorio. E gli effetti nefasti sono sotto i nostri occhi, nel mezzo del mediterraneo.