Una chiacchierata con Gabriela Carpineti, avvocatessa argentina delle cause popolari
Femminista, militante, avvocatessa degli ultimi e dei movimenti sociali argentini. Con origini italiane e un’ottima padronanza della nostra lingua, la compagna Gabriela Carpineti è diventata un volto noto in Argentina soprattutto per il suo impegno legale al fianco di chi non ha diritti, o di chi spesso non ha voce per farli valere.
Gabriela è una convinta peronista, cristiana di base, vicina al movimento dell’economia popolare nato dopo la grande crisi del 2001-2003, che ha messo insieme migliaia di donne e uomini esclusi dal mondo del lavoro, per creare diritti e opportunità attraverso la nascita di cooperative, il recupero e l’autogestione operaia delle fabbriche, l’invenzione di nuovi lavori e dunque di nuove conflittualità. In questo contesto la lotta politica di Gabriela Carpineti diventa anche impegno professionale, nella difesa dei lavoratori più poveri del sistema argentino, ma anche dei militanti, dei leader sociali, degli attivisti di movimento che si ritrovano faccia a faccia con una repressione mai realmente sopita. A pochi giorni dalle elezioni presidenziali argentine di domenica 27 ottobre, Officine Civiche ha parlato con lei di alcune delle questioni chiave del momento storico, non solo per l’Argentina ma per l’intero continente americano, con suggestioni interessanti anche per chi come noi fa attività sociale nella vecchia Europa. A partire dalle sfide che il campo popolare e di classe, nel paese latinoamericano, sta tentando di affrontare rompendo gli argini delle narrazioni della politica tradizionale, facendo contro-egemonia ai discorsi della destra, ma direttamente nelle periferie, nelle scuole popolari, nelle mense di quartiere, nei barrios dove vivono e si organizzano ogni giorno gli ultimi del Paese.
Quando dal 2015 è esploso il movimento NiUnaMenos in Argentina, anche in Italia le storiche vertenze femministe hanno ripreso slancio, adottando nuovi metodi e perfino nuovi linguaggi che provengono dalla lotta al patriarcato in America Latina. Nel frattempo però in Argentina ha assunto un peso specifico il concetto di femminismo popolare, con il coinvolgimento diretto delle compagne sindacaliste, i legami con la CTEP (Confederazione dei Lavoratori dell’Economia Popolare), lo sciopero delle donne. In che cosa consiste il cosiddetto feminismo popular, il femminismo dal basso? Come lo spiegheresti?
Femminismo popolare, in parole semplici, vuol dire lottare per i diritti civili ma anche, e forse soprattutto, per i diritti sociali delle donne. Adottare una prospettiva di classe, la prospettiva dei settori del lavoro, delle donne lavoratrici, dell’economia popolare. Per questo noi diciamo che non c’è giustizia sociale senza avere terra, casa e lavoro. Il femminismo popolare è un femminismo che lotta per l’uguaglianza nell’ambito dei diritti socio-economici e delle tre T (tierra, techo, trabajo).
Parlando ancora di economia popolare, il periodo di presidenza di Mauricio Macri in Argentina ha coinciso con una forte ripresa delle mobilitazioni di questo settore dei lavoratori. Che cosa è cambiato per l’economia popolare, per le fabbriche recuperate, le cooperative, i lavoratori esclusi, i cartoneros, durante la presidenza neoliberista di Macri?
C’è una differenza tra un governo capitalista neoliberista e un governo capitalista ma con una prospettiva nazionale e popolare. Con questo voglio dire che anche il governo di Cristina Kirchner era un governo certamente capitalista, ma almeno aveva una forma di inserirsi nel mondo globale con dignità. C’era uno stimolo al mercato interno nella difesa del lavoro e dei lavoratori che era certamente opposto ai progetti neoliberisti, e soprattutto una alleanza regionale con altri paesi sudamericani che rendeva possibile una difesa del territorio e del lavoro argentino. Invece i governi capitalisti neoliberisti diventano nemici del popolo. Se prima era difficile per l’economia popolare ad esempio incentivare le cooperative, oggi con Macri è direttamente impossibile perché c’è una persecuzione dal punto di vista del diritto penale. Si giudizializza il conflitto sociale. Nei governi come quello di Cristina si aprono istanze di dialogo, di negoziazione, nei governi neoliberisti questo non è possibile. C’è una persecuzione giudiziaria.
A proposito, tu sei un’avvocatessa e spesso ti sei occupata del problema del cosiddetto lawfare in America Latina, cioè l’uso del sistema legale per fermare o ostacolare un oppositore politico. Pensiamo al caso di Lula in Brasile, ma sappiamo che in Argentina questo tipo di repressione nelle aule giudiziarie è stato usato anche contro leader sociali e militanti del campo popolare…
Quello che diciamo noi è che la giustizia come potere dello Stato si è trasformata in una corporazione che si autogoverna, che si è assolutamente separata dagli interessi popolari ma anche dei governi nazionali. Si è trasformata in una corporazione a sé, che insieme ai grandi mezzi di comunicazione governano i destini di molti paesi ex coloniali come il nostro. È un potere per sé stesso, senza nessun legame con gli interessi che possono promuovere gli altri due poteri della Repubblica, mi riferisco al Parlamento e al potere Esecutivo. Questo si è trasformato in un boomerang, in un potere di guerra, dove la persecuzione ai leader sociali si ripercuote in maniera ancora peggiore sui settori bassi della società. Se volevano incarcerare Cristina, se hanno incarcerato Lula, immaginiamo quello che succede ai ragazzi e alle ragazze dei quartieri popolari rispetto alla repressione quotidiana! Pensiamo a come se la passano i settori popolari, quando si produce una persecuzione nei confronti dei leader sociali questo si ripercuote sempre con più violenza verso i settori indifesi.
In Europa il discorso dell’estrema destra sta diventando egemone, ma recentemente vediamo questa deriva tornare anche nelle Americhe. In Argentina il campo nazionale-popolare è anche quello più progressista, che difende i diritti degli ultimi, delle donne, degli emarginati, come insegna la tradizione peronista. Uno slogan molto bello del kirchnerismo (l’area politica legata agli ex-presidenti Nestor e Cristina Kirchner, nda) era “La Patria es el Otro”, la Patria è l’Altro. Cosa significa per te la Patria? Nella vostra lotta che ruolo hanno gli immigrati che vivono nei quartieri poveri?
C’è una frase che diceva mio nonno, che era italiano ed è venuto in Argentina nel secondo dopoguerra: Patria è quella che ti dà da mangiare, è quella dove puoi lavorare e costruire insieme ad altri un destino comune. Per questo un paese come l’Argentina, che ha sempre accolto, ancora oggi ha un atteggiamento di apertura e non di persecuzione verso i migranti. Nella città di Buenos Aires ci sono molte comunità migranti, soprattutto da paesi limitrofi. Quando noi lavoriamo nei quartieri popolari diciamo che l’integrazione non è solo quella fatta dallo Stato, ma deve esserci anche integrazione urbana tra i quartieri popolari con il resto della città e quindi si deve tener conto dell’esperienza comunitaria dei migranti. È una cosa per noi molto importante. Papa Francesco dice spesso che il cammino di Gesù è iniziato dalle periferie, dai poveri e con i poveri. Per questo noi crediamo che la Patria si trova e si costruisce dalla prospettiva delle periferie, geografiche ed esistenziali. La questione fondamentale nel percorso insieme ai migranti è quello di poterci percepire come uguali; la capacità di ospitalità di un popolo con i migranti che arrivano, ha bisogno di questo principio fondamentale: considerarsi uguali. La pietà popolare è una forma legittima di sentirsi parte di un percorso comune, che poi è il messaggio cristiano che ha a che vedere con l’evoluzione profonda della Nostra America.