21 Ottobre 2019 - Giulia Carletti - Divulgazione

Musei e pubblici: ci si incontra sul territorio

“Proprio come la vera funzione dello Stato capitalistico nell’amministrare la società della produzione era quella di assicurare un continuo e proficuo incontro tra il capitale e il lavoro, mentre la vera funzione dello Stato che presiede alla società dei consumi è di assicurare il frequente e positivo incontro tra i prodotti di consumo e i consumatori, così il punto focale dello Stato culturale, ossia dello Stato orientato verso la promozione delle arti, deve concentrarsi sul garantire e coadiuvare il continuo incontro tra gli artisti e il loro pubblico. È dentro questo tipo di incontro che le arti della nostra epoca vengono concepite, generate, stimolate e realizzate”.

 Z. Bauman

 

Il pensiero su che cosa e come il museo d’arte debba cercare di comunicare gli oggetti che si è assunto la responsabilità di conservare, interpretare ed esporre, va a costituire le politiche macromuseali. Chiaramente, un museo ha successo quando riesce a rivolgersi in modo profondo ai pubblici di una comunità sapendo parlare però con tutte, ma allo stesso tempo essendo in grado di scampare ai rischi della gentrificazione nascosti dietro il baluardo della “riqualificazione urbana” e della “democratizzazione della cultura”. Per questo motivo la “mission” di un museo non può non passare dalla sua relazione e investimento col territorio e con la sua comunità. Se vogliamo che il museo sia lo spazio dei diversi linguaggi e valori culturali e sociali, in cui i loro significati siano sempre frutto di una trasformazione e un’ibridazione, bisogna chiedersi: come deve introdursi la realtà museale in questa trasformazione? Deve comunicarne la natura o deve stimolarne una ulteriore? Deve riportare o deve proporre delle visioni? 

Se prendiamo coscienza del fatto che l’atto di selezionare ed esporre oggetti d’arte non è mai neutrale, possiamo dire, senza troppe esitazioni, che il museo contemporaneo in quanto istituzione culturale non può essere semplicemente lo specchio del suo tempo, non può aspirare soltanto a comunicare una realtà, ma deve iniziare ad avere una consapevolezza profonda dell’impatto che esso ha su una società: e questo è ottenibile attraverso un’operazione di criticizzazione continua e di qualità sul suo contenuto. Anche in termini di produzione artistica contemporanea che riesce a promuovere, attivando costantemente riflessioni antropologiche e collaborando con le altre realtà scientifiche. Questa dovrebbe essere la prassi per un museo che intende realmente produrre conoscenza per una comunità. In questo modo si supererebbe la visione tradizionale che vede il museo come punto d’approdo delle opere che un’univoca idea di storia, calata dall’alto, si incarica di “filtrare”. 

Che cosa vuol dire in termini pratici? Sicuramente non vuol dire rendere il museo d’arte un’istituzione ancora più astratta di quanto non sia già percepita; ma vuol dire sul piano delle policy culturali investire sulla formazione e rinunciare ad una visione standardizzata, mentre sul piano più politico cominciare a ragionare a partire dal territorio e da una comunicazione virtuosa con il visitatore/cittadino che entra nel suo museo e che ne deve capire non solo il contenuto, ma anche scopo, funzione, e utilità pubblica. In un mondo in cui dominano lo squilibrio tra gli investimenti nell’immateriale (come la formazione, la ricerca e la progettazione a lungo termine) e quelli nei beni materiali (ad esempio quelli immobiliari) e la politica dei grandi eventi, insieme al tentativo di gerarchizzare le varie realtà museali (tramite reti e Poli museali non ben identificati), si rischia di produrre un vero scollamento tra queste istituzioni e i loro pubblici. 

Ecco perchè due approcci gestionali alternativi in questo senso sono gli ecomusei e la gestione partecipata. Qui la comunità del museo non entra semplicemente “in gioco”, sentendosi parte attiva, ma cessa persino di essere un “pubblico” per diventare invece co-gestore (anche se non professionalizzato) e punto di riferimento per l’istituzione stessa, che a sua volta garantisce occasioni di sviluppo socio-culturale e di crescita intellettuale e relazionale. 

Teorizzati verso la fine degli anni ’70 – come approdo finale della Nouvelle Mousélogie – gli ecomusei si basano tutti sulla nozione di patrimonio come bene diffuso e comune (materiale e non), amministrabile dalla popolazione locale nel contesto di un territorio omogeneo, instaurando con questo un rapporto ecologico. Essendo queste, come dice Maggi, «istituzioni particolarmente legate, per la loro natura e la loro storia, alle domande della collettività», l’ecomuseo sovrappone territorio, contesto e comunità di riferimento. Anche se alcuni museologi cadono un po’ nella trappola di vederne l’aspetto rafforzativo di una non ben specificata “identità territoriale”, è chiaro come questa debba essere incentrata sulla condivisione e la valorizzazione di un bene comune, libera da cristallizzazioni inutili e basata sulla sostenibilità e sulla solidarietà. 

Qui il Manifesto strategico degli ecomusei italiani

Qualcosa è cominciato a muoversi. Nel 1995 il Piemonte si è dotato, prima Regione in Italia, di una legge di istituzione degli ecomusei (L.R. 31/95 “Istituzione di Ecomusei del Piemonte”) che ne regolamenta lo statuto da parte del Consiglio Regionale a seguito della valutazione dei progetti effettuata dall’apposito Comitato Scientifico e su proposta della Giunta Regionale. Nel 2016, nell’ambito della 24ª Conferenza Generale ICOM “Musei e paesaggio culturale” di Milano, si è svolto il primo Forum di ecomusei e musei comunitari dai quali esiti è nata l’idea della stesura di una Carta di cooperazione di Milano. Inoltre, all’inizio del 2017 è nata DROPS, una piattaforma mondiale per gli ecomusei e i musei di comunità (incluse le loro reti esistenti o ancora da realizzare e quelle ONG attive sul tema del patrimonio e del paesaggio) con l’obiettivo di «collegare tutti gli ecomusei e le reti regionali e nazionali di tutti gli ecomusei e i musei di comunità, esistenti o ancora da fondare, con le associazioni che lavorano nell’ambito del patrimonio e del paesaggio» 

Qui la Ecomuseums DROP Platform

Come suggerito anche da Falletti e Maggi, le reti partecipative create dal basso «servono non solo per ottemperare alla political correctness, ma perché i legami che si creano con metodi bottom-up seguono tempi adeguati alla capacità dei soggetti che vi prendono parte, assicurano la loro crescita formativa».

Partendo dall’affermazione di Alberto Garlandini, attuale vicepresidente dell’ICOM, che sottolinea l’importanza dei modelli partecipati di gestione; la sussidiarietà e la cooperazione tra le questioni fondamentali dei musei, Angela Vitale evidenzia l’accezione di museo come bene comune descrivendone una formula gestionale di sussidiarietà orizzontale, in quanto, secondo l’autrice, l’utilizzo di tale logica potrebbe configurarsi «come soluzione al gap socio-economico che la società attuale sta vivendo soprattutto in ambito culturale» e costituirsi non solo come «una possibile risposta alle numerosi riduzioni di finanziamento pubblico, ma anche [come] una nuova spinta per rinnovare la sua funzione sociale». Il museo, la propria storia e la storia che custodisce devono essere beni comuni, in quanto bene non escludibile e – possibilmente – pubblico. Partendo da questo, possiamo costruire una piattaforma di governance collaborativa, basata sul reciproco e simultaneo impegno tra e di amministrazioni e cittadini. 

Ma come evitare di implementare sterili forme di outsourcing e instaurare invece un vero e proprio processo educativo, critico e di emancipazione? Dove la collezione parli non di “diffusione di sé” ma di “inclusione”? Come scrive Salvatore Settis, «i modelli vanno non solo identificati, ma anche analizzati prima di adottarli e (si spera) di migliorarli. La quantità può vincere nel breve termine, per la facile e ingannevole eloquenza dei numeri; ma inevitabilmente perde nel lungo periodo. Occorre dunque puntare sulla qualità». Qualità della formazione e delle attività da parte delle personalità operanti al suo interno, ma anche qualità della continua ricerca critica che il museo deve proporre.

L’implementazione di una gestione partecipata può sembrare naturalmente molto problematica, per vari motivi legati non solo alla nostra cultura, ma anche alla legislazione e alla professionalizzazione delle personalità che operano all’interno del museo. Ma si deve pensare di fare quel passo, includendo tutti, per promuovere finalmente una visione dell’arte e del museo come beni comuni. 

 

in foto: MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia