Ciampino e le piste ciclabili: risposte sbagliate a domande sbagliate
La settimana ciampinese è purtroppo cominciata con la notizia di un incidente grave: un’automobile ha tamponato un ciclista ottantenne in via Mura dei Francesi, ora ricoverato al Policlinico di Tor Vergata.
Probabilmente, in base a quanto dichiarato dalla conducente dell’auto, si è trattato non di un comportamento scorretto dell’automobilista, che ha dichiarato di essere stata accecata dal sole, che le ha reso impossibile vedere la bicicletta.
Questa notizia, appresa da un’amica che ne ha parlato su un social network, mi ha fatto pensare all’annosa questione delle piste ciclabili e a quanto sulle nostre strade i ciclisti siano mal tollerati da automobilisti e da pedoni (che probabilmente sono automobilisti che hanno appena parcheggiato).
Negli ultimi mesi mi sono trovata frequentemente a passeggiare per le strade di Ciampino, e ho purtroppo avuto spesso l’occasione di notare il parcheggio selvaggio di tanti e tante che, con la scusa del “stavo un attimo in farmacia” arrecano disagi alla circolazione stradale e ai pedoni che devono fare la gincana tra una macchina e l’altra. Sono sempre e solo l’unica ad inveire contro questi soggetti che, anziché parcheggiare correttamente a qualche decina di metri dalla loro meta, preferiscono arrecare disturbo al prossimo. Molto più astio mi sembra invece di cogliere nei confronti degli utenti del velocipede, da parte degli automobilisti in strada, da parte dei pedoni sul marciapiede.
Ve lo siete mai chiesto il perché? Io una risposta me la sono data. È la cattiva coscienza di coloro che considerano un peccato meno grave il parcheggio selvaggio, rispetto all’ostacolo per la circolazione che ritengono una bicicletta sia. Il perché è abbastanza ovvio: tutti prima o poi diranno la famosa frase “stavo un attimo in farmacia”. Tutti.
Ed è qui che si inserisce la triste storia delle piste ciclabili (si, pure questa è triste, come quella della raccolta differenziata), che sono una risposta sbagliata, a una domanda sbagliata pure quella. Non che siano una soluzione scorretta in assoluto, solo che sono di difficile realizzazione, se non impossibile, sulla stragrande maggioranza delle strade italiane, vista l’urbanistica delle nostre città. Succede quindi che gli amministratori locali, davanti alle richieste di associazioni di cittadini preoccupati per la propria sorte quando decidono di spostarsi in bicicletta, rispondono con degli sconsolati quanto ipocriti niet (qualcuno anche con un po’ di sollievo) supportati da pareri tecnici che fanno riferimento a circolari ministeriali sull’ampiezza minima della pista ciclabile, etc. etc. Ma ormai l’hanno capito in mezza Europa, e pure in mezzo mondo, che è necessario ripensare completamente alla nostra modalità di stare per strada, che non deve essere considerata nelle esclusive disponibilità di chi si muove in auto, dovendo invece diventare il luogo dove anche le bici hanno diritto di transitare in piena sicurezza. Come si fa senza che i ciclisti rischino la vita? In Europa e nel mondo, la soluzione è quella delle Zone 30: realizzabili in qualsiasi città, hanno lo scopo di consentire una migliore convivenza tra automobili, pedoni e biciclette, imponendo una velocità massima di 30 km/h, riducendo lo spazio della carreggiata destinato alle automobili e utilizzando rallentatori ottici e/o acustici, dossi, rialzi agli incroci, cuscini berlinesi, rotatorie e isole spartitraffico.
Se la velocità diminuisce, oltre a diminuire il rischio per tutti gli utenti della strada (gli incidenti si riducono sensibilmente), anche le emissioni inquinanti subiscono un decremento. Lo strumento di programmazione sul quale è necessario intervenire è il Piano Urbano del Traffico.
Questo tipo di interventi ha consentito il raggiungimento di risultati incredibili nella città francese di Chambéry: l’obiettivo della graduale trasformazione di Chambéry in una città composta esclusivamente da “zone 30” è stato quello di invertire le modalità tradizionali di uso dello spazio stradale, facendo comprendere agli automobilisti che essi non sono i dominatori della strada ma, al contrario, possono essere soltanto “tollerati” in uno spazio che non è di loro proprietà. Per raggiungere questo obiettivo, a Chambéry sono stati intrapresi due tipi di azioni: uno, di ordine psicologico, volto a influenzare il comportamento degli automobilisti; l’altro, di ordine fisico, per limitare concretamente la velocità dei veicoli attraverso il ridisegno dello spazio stradale. Questo sistema è stato riassunto in uno slogan: “convincere e costringere”.
L’introduzione delle “zone 30” su tutto il territorio urbano ha dato risultati eccellenti per quanto riguarda la sicurezza. Tra il 1979 e il 2002, gli incidenti stradali con danni alle persone sono passati da 453 a 53; il numero di feriti e morti è sceso da 590 a 65, secondo un trend di riduzione costante.
E a Ciampino che si fa? L’Amministrazione comunale sembra intraprendere qualche timidissimo passo con l’approvazione di una mozione che propone incentivi economici per chi si reca al lavoro in bicicletta: bene, anzi benissimo. Ma prima di arrivare agli incentivi economici, un po’ di soldi andrebbero spesi per rendere sicure le strade della città proprio per chi decide di percorrerle in bici, contribuendo in questo modo al miglioramento delle condizioni di vita di tutti (meno traffico, meno emissioni nocive, più parcheggi disponibili). Possibile che in una città di 12 kmq, con pendenze minime e un traffico locale intenso, non si riesca a sensibilizzare la cittadinanza all’uso della bici? In realtà, diciamolo, nessuno ci ha mai provato. Probabilmente perché questo tipo di interventi non porta oneri di urbanizzazione nelle casse del Comune, né voti facili. Anzi, come tutti i cambiamenti, l’introduzione delle Zone30 scatenerebbe l’ira di tutti quelli che non sanno vedere nelle rivoluzioni culturali delle opportunità.