Prospettive e Resistenze in un campo profughi ai confini dell’Europa
Le persone bloccate nei campi profughi nel nord della Grecia sono uomini e donne, bambini e bambine, famiglie normali che avevano una vita normale prima che una guerra di proporzioni mai viste dal ‘45 in poi cancellasse dalla faccia della terra quella loro normalità, lasciando migliaia di persone con un’unica speranza: raggiungere una nuova vita da qualche parte in Europa.
Siriani, iracheni, afghani, iraniani; arabi, curdi e yazidi, bloccati nel limbo burocratico del sistema-Dublino, con il quale l’UE ha creduto di arginare un “problema” che, però, non era altro che la Storia che irrompeva alle porte di casa nostra. Il resto lo hanno fatto i muri e il filo spinato, la chiusura delle frontiere. Quella rotta balcanica che dal Medio Oriente arrivava in Germania, è stata chiusa dai governi europei ed extra-europei mostrando il fallimento più grande dell’intero progetto di integrazione continentale, di fronte ad eventi speculari alle vicende che di quell’Europa Unita furono la ragione d’esistere.
Nel campo profughi di Oraiokastro, meno di 10 chilometri a nord di Salonicco, vivono in perenne attesa circa 1300 persone. E’ solo uno dei tanti (in tutto 54) campi governativi che puntellano l’intero territorio greco. La maggior parte di queste persone sono state spostate qui, in un capannone di cemento armato nel cuore della periferia ex-industriale di Salonicco, dopo lo sgombero del noto campo “informale” di Idomeni, a ridosso del primo cancello chiuso d’Europa, quello tra Grecia e Macedonia. Il campo è in uno dei tanti ex capannoni abbandonati dopo lo scoppio della crisi in Grecia, una crisi che è plasticamente rappresentata da questa immensa periferia desertificata: ettari di campagna arsa e improduttiva disseminata di enormi relitti industriali, ciminiere spente, fabbriche abbandonate, puzza di concime e di plastica riarsa al sole. Quando non tira vento, a luglio, fanno oltre 40 gradi percepiti fino al tardo pomeriggio. La vita nel campo di Oraiokastro scorre senza prospettive, nel dubbio di ciò che avverrà ad ognuna di queste famiglie, con la loro unica speranza di ottenere un timbro sul documento che prima o poi gli consentirà di raggiungere la Germania, l’Austria, la Svezia. L’alternativa a quel timbro, anche se quasi nessuno lo dice, è la deportazione forzata in Turchia. La Turchia dispotica di Erdogan, degli ambigui doppio-golpe, della repressione del dissenso, beneficiaria di 6 miliardi di euro dall’UE per tenersi i rifugiati e non farli riversare in questa Europa spaventata, impreparata, inetta.
Ad Oraiokastro abbiamo portato, grazie ai fondi raccolti nelle scorse settimane, un contributo economico minimo ma utile per affrontare i caldi mesi estivi nelle tende di plastica stipate una accanto all’altra in questo reticolo di asfalto e cemento: 50 ventilatori per altrettante famiglie sprovviste e 2 condizionatori d’aria per la scuola del campo, in fase di costruzione, dove alcuni dei bambini stanno per riprendere un percorso d’istruzione (senza dubbio insufficiente, fallace e privo di continuità) interrotto dalle bombe e dalla devastazione dello stato sociale nei paesi di provenienza. I bambini, ovviamente, sono l’anello più debole di una situazione che ha livellato i limiti della dignità umana, ma sono allo stesso tempo l’unica fonte di speranza per poter costruire un’umanità multiculturale matura, in un futuro non lontano, fuori dai perimetri imposti da un sistema umanitario collassato. In questo senso la scolarizzazione riveste, e dovrà rivestire, un ruolo di primaria importanza. In caso contrario, i pericoli in agguato della piccola criminalità, l’annichilimento della persona, le grinfie del fanatismo religioso, rischiano di trovare terreno fertile. Lo abbiamo visto in passato come agiscono questi mostri, non potremo sostenere di non aver saputo, di non aver capito.
Per ora la situazione è statica, cristallizzata. Oggi nel campo vive per lo più la ex classe media siriana. Persone che furono lavoratori benestanti, sopratutto arabi, quasi tutta gente di città. Una famiglia di Latakia ci mostra le foto della vita prima della guerra. Il padre ora vive ed è disoccupato in Germania, dove la moglie e i figli sperano di poterlo raggiungere. In Siria possedeva un suo autosalone, aveva due moto d’acqua, una grande casa di non-abbiamo-capito-quanti piani. Erano loro i ricchi, non certo noi! Solo che noi siamo tornati nelle nostre case in Italia, mentre loro, per colpa anche di questa Europa e di questo Occidente, sono costretti a vivere in una tenda di plastica privati dei diritti più elementari a partire dalla libertà di movimento. La ricerca spasmodica del mantenimento della normalità è l’elemento più estraniante nel campo. I bambini si sistemano di tutto punto prima di andare a scuola, hanno gli zainetti della Disney stipati di penne e biscotti, anche se alla scuola preferiscono l’altalena improvvisata con due tavole di legno, sistemata in un’apposita e altrettanto improvvisata area giochi. Il campo è un potenziale parco giochi per questi bambini, un parco dove però l’assistenza sanitaria è carente e lacunosa, gli standard minimi d’igiene sono garantiti solo da alcuni volontari e dalla pulizia dei rifugiati stessi, mentre il personale medico latita per la maggior parte del tempo. I bambini tossiscono in continuazione, hanno ferite da taglio, cicatrici rimarginate male, sono coperti da capo a piedi dai morsi degli insetti.
Delle tante lunghe chiacchierate con gli amici che abbiamo conosciuto nel campo, è stata una discussione con una famiglia curda-siriana a darci, più di tutte, l’idea del nostro ruolo e del ruolo dell’Occidente in un luogo di confine, fisico e morale, come questo. Un’idea che non possiamo elaborare facilmente, forse non potremo farlo mai. E’ usuale, chiacchierando con una famiglia del Rojava, finire presto a parlare di politica. Alcuni di loro, più grandi, hanno combattuto nelle file dello YPG/YPJ, altri più giovani hanno nei telefoni cellulari video e canzoni di guerra, discorsi di dirigenti politici, fotografie di Ocalan. Per noi la lotta di resistenza del Rojava rappresenta un esempio di riscatto rivoluzionario mitizzato dal racconto politico degli stessi guerriglieri curdi, loro lo percepiscono e sono contenti di sapere che nel mondo la loro lotta è conosciuta, sostenuta e rispettata. Ma è la loro guerra, una guerra che ha fatto morti e lacerato famiglie, e che loro avrebbero fatto volentieri a meno di combattere. Davanti a una tazza di chai, con l’aiuto dei gesti e di un cellulare con traduttore simultaneo, ci riusciamo a capire anche quando la discussione diventa più complessa: Parliamo di confederalismo democratico, li ringraziamo per quello che il popolo curdo sta facendo contro Daesh, loro ringraziano noi e addirittura ci raccontano dei guerriglieri internazionali che vengono da tutto il mondo per combattere al fianco dei curdi. Però nel discorso aleggiano frasi tradotte a spezzoni, il cui senso sembra essere racchiuso in un: Fate qualcosa! Fatevi sentire! Talk with your government! E’ ovvio che i curdi nel campo di Oraiokastro sanno che noi non abbiamo il numero di telefono di Obama o di Renzi, quello che vogliono è che ci facciamo testimoni a casa nostra della loro condizione, che scendiamo in piazza, che scuotiamo le coscienze nel nostro Occidente assopito.
Non siamo andati nei campi profughi per fare atti di carità, non è questo il nostro intento né la nostra prospettiva d’azione. Ma il ruolo degli occidentali in questi contesti sembra sempre pervaso di una certa ambiguità: possiamo costruircelo con l’azione, ma non capiremo cosa si prova nel lasciare la propria casa bombardata nottetempo, non sappiamo cosa significa subire tentativi di pulizia etnica, non abbiamo mai attraversato il mare mentre la gente intorno muore annegata. Prima facciamo i conti con questa nostra consapevolezza, meglio potremo agire insieme alle persone che oggi si ritrovano al nostro fianco, in Europa, trattati come bestie da quelle stesse istituzioni che noi conosciamo fin troppo bene. Le organizzazioni che nei campi profughi si sono costruite un ruolo reale, politico e sociale, non si limitano a portare acqua e pane, ma costruiscono scuole, elaborano progetti culturali, insegnano ai bambini la musica o l’arte, cercano di arginare attraverso un lavoro collettivo la dilagante depressione giovanile nei campi. Ma questo non può bastare, allo stesso tempo, se non siamo consapevoli dell’urgenza di un’azione politica mirata al ripensamento della gestione dell’immigrazione in Europa. Non possiamo non agire nelle nostre capitali europee, giorno dopo giorno, perché l’obiettivo ovviamente non è quello di avere dei “buoni campi”, ma è quello di non averli affatto! Noi crediamo che cittadini europei e rifugiati debbano portare avanti una battaglia comune, spalla a spalla, contestualmente alle pur splendide azioni di cooperazione e autogestione che hanno reso la vita meno difficile a Idomeni e che oggi cercano di portare avanti l’umanizzazione di questi campi governativi che di umano hanno ben poco.
Per questo, e per tanto altro, come Ciampino No Borders abbiamo voluto in questi giorni diffondere alcune brevi righe, che riportiamo di seguito, anche alla luce dell’inevitabile semplificazione che i social-media producono nostro malgrado, a seguito della condivisione di materiale informativo al nostro ritorno dall’intensa esperienza nei campi della rotta balcanica:
#CiampinoNoBorders
In questi giorni abbiamo ricevuto molti apprezzamenti personali e collettivi per il progetto ma riteniamo importante dire qualche parola.
Per quanto ci possano far piacere ci teniamo a precisare che questo progetto non vuole mettere in luce la ‘’buona volontà’’ di qualche ragazzo/a che ha la fortuna di poter trascorrere una settimana caritatevole nei campi profughi.
Questo progetto – che abbiamo intenzione di proseguire – è stato pensato come uno strumento attivo, politico in grado di portare alla luce, attraverso l’esperienza diretta nei campi, le condizioni di vita di milioni di esseri umani confinati nella periferia d’Europa. I protagonisti del progetto sono quindi i profughi, persone in carne ed ossa con una loro storia, con il loro vissuto tragico prodotto dalle scelte folli dei governi guerrafondai occidentali e mediorientali. Uomini, donne e bambini con una storia di vita cancellata dalla guerra e dalla miseria, segregate e senza la certezza di un futuro umanamente dignitoso, alle quali un intero sistema economico e politico impedisce di muoversi liberamente per costruirsi un futuro altrove, degno di essere chiamato Vita. I protagonisti di questo nostro progetto non sono dunque i fortunati ragazzi occidentali che possono permettersi di viaggiare liberamente e portare solidarietà, insieme a qualche minima risorsa materiale, ma i profughi stessi. Se condividete questo spirito e con noi il rifiuto di questa situazione folle ed inumana raccontate quello che le nostre immagini raccontano. Spiegate con calma e fermezza a chiunque sostiene che i profughi ‘sono troppi’ o ‘sono tutti terroristi’ che non è così. Fategli vedere i sorrisi dei bambini, raccontategli la lotta contro l’ISIS e la barbarie dei Curdi di Kobane, raccontate il vissuto di chi aveva una vita normale in Siria ed oggi si ritrova senza casa né futuro e con qualche morto sepolto nel profondo del cuore.
Noi, oggi più di ieri, crediamo che le frontiere siano uno strumento utile solo a separare gli sfruttati, gli ultimi.
Noi rivendichiamo il diritto delle persone a poter circolare liberamente.
Noi crediamo che scaricare sulla Grecia devastata dalla crisi economica una questione umanitaria mondiale sia criminale. Noi crediamo che la follia di Erdogan non si combatta finanziandone le politiche di ‘’accoglienza’’ per poter tenere i profughi lontani dalle nostre coste ma aprendo le frontiere dei paesi europei, accogliendo, creando lavoro e garantendo a quei bambini una educazione scolastica.
Noi crediamo molte altre cose e vogliamo discuterle con voi. Questo affinché la solidarietà e la politica non siano ridotti ad una semplice condivisione su facebook di idee personali ma tornino ad essere unici strumenti materiali in grado di cambiare il corso della storia.