Il NO delle comunità ribelli
La riforma costituzionale sulla quale siamo chiamati ad esprimerci tramite referendum il prossimo 4 dicembre riscriverà – se verrà approvata – un terzo della nostra Carta Costituzionale. Ciò nonostante, la modifica di ben 47 articoli è stata affidata ad un “meccanismo” tutto interno alla politica, alle forze che costituiscono l’attuale esecutivo nazionale, senza alcun coinvolgimento dal basso ed anzi, con una consultazione referendaria talmente ritagliata sulle posizioni del Governo, da creare uno squilibrio mediatico lampante, con il fronte civico del No impegnato in una campagna dalle tinte quasi clandestine, fatta con poche risorse economiche, bassissima copertura mediatica, ma anche tante iniziative sul territorio, discussioni tra la gente, banchetti, volantini fai-da-te, campagne alternative e tanta militanza diffusa.
Parlo di fronte civico del No perché i partiti politici impegnati nelle campagne di entrambi gli schieramenti hanno tutti, e dico tutti, i loro grossi limiti. A partire dalla loro bassa credibilità in questo preciso frangente, spesso conseguenza del prolungamento di un tedioso dibattito politico nazionale che si diffonde e inquina le posizioni referendarie su un tema che, vi assicuro, le persone percepiscono ancora come delicato e fondamentale: la Costituzione di questo Paese.
Al di là di tutte le considerazioni che si possono e si devono fare sugli aspetti tecnici e politici di questa riforma, voglio soffermarmi sul significato che questo referendum riveste per le comunità italiane che ogni giorno si impegnano per vivere e progredire dignitosamente, nei quartieri, nei borghi, nelle valli, sulle coste, nelle periferie, nei capoluoghi e nelle frazioni di un’Italia che, come sappiamo in queste tragiche giornate, ha fatto della dignità diffusa sui territori un punto di forza e di coesione popolare.
Miliardi di euro spesi in grandi opere inutili e nessuna progettazione né investimenti seri per la messa in sicurezza del territorio: sistematicamente, la brutalità dei cataclismi naturali mette a nudo il modo in cui le nostre comunità sono state tenute ai margini dall’agenda economico-politica nazionale. E’ questo che porta alla ribellione dei territori, ma anche alla loro grande spinta solidale.
Nelle nostre comunità le battaglie per la difesa dei beni comuni si sono spesso incrociate con le tutele giuridiche del diritto italiano che, talvolta, garantisce le ragioni dei cittadini e l’interesse delle comunità locali. Nel nostro territorio, in più occasioni, le Soprintendenze sono state interlocutori privilegiati dei cittadini, a volte con buoni risultati, altre volte meno. Si pensi anche agli strumenti istituzionali attraverso i quali si interpellano la Regione o gli altri enti sovracomunali in merito alla salvaguardia di patrimoni storici, artistici o paesaggistici. A Ciampino molti di questi percorsi sono ancora in atto, è il caso del Parco dei Casali, che i movimenti e le associazioni chiedono sia reso pubblico in ottemperanza di un articolo della nostra Costituzione, il numero 42. Tutti questi strumenti rientrano nel grande mare-magnum delle tutele che la Costituzione mette a disposizione degli interessi democratici collettivi. Queste stesse tutele, però, rappresentano proprio l’ultimo dei muri che i grandi interessi privati, con il supporto dei peggiori governi del Paese, non sono ancora riusciti ad abbattere per avere totale libertà di saccheggio, lucro, monopolio e monetizzazione dei nostri territori. Fino a questa riforma.
Ci voleva un governo che si definisce “progressista” per avanzare un tale disegno di via libera alla disgregazione del bene collettivo e delle sue ultime pallide tutele. Cito testualmente le parole dell’appello dei Territori per il NO: “Con l’ennesima Riforma del Titolo V, gli Enti territoriali, che spesso si sono fatti carico delle istanze dei cittadini, contribuendo a migliorare la realizzazione di taluni progetti o evitando, quando ciò fosse manifesto, che il territorio venisse devastato, non avranno più voce in capitolo su materie o politiche cruciali per la sorte delle collettività locali: quali, ad esempio, l’energia, le infrastrutture, il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali e, più in generale, ogni altra materia che il Governo dovesse ritenere – se entrerà in vigore la riforma – di lasciar disciplinare al solo Parlamento nazionale, in virtù della cosiddetta clausola di supremazia”.
In effetti, sul fronte del ripartimento delle competenze tra Stato e Regioni, non solo si combina un pastrocchio gravissimo di competenze sui temi di “tutela”, “valorizzazione” e “promozione” del patrimonio, che a tutti gli effetti finirà per dare poteri ancor più ampi alle maggioranze di governo nazionali nelle questioni che riguardano la difesa dei beni culturali sui territori, ma si introduce una novità assoluta nel nostro ordinamento giuridico: la clausola di supremazia. Ciò consentirà alla legge dello Stato, su proposta del Governo, di intervenire in materie di competenza regionale a tutela dell’interesse nazionale, che tradotto significa che se si dovrà costruire una grande opera, trivellare un pezzo di costa, scavare una discarica, svendere a un privato un patrimonio culturale, il Governo può decidere di scavalcare gli strumenti giuridici di cui sopra e quindi, di fatto, il volere dei cittadini e degli enti locali.
Riprendendo ancora l’appello dei Territori per il NO: “Chi come noi ha lottato per salvaguardare il proprio diritto alla vita e alla salute e perché si affermasse un modello sociale sostenibile sa bene cosa significano queste parole: commissariamenti, sospensioni democratiche, militarizzazione dei territori a tutela dell’interesse del potentato economico, lecito o no, di turno”. In Italia esistono luoghi dove non è possibile fare una passeggiata nel bosco o nelle campagne dietro casa, perché ci sono posti di blocco militari che ti fermano e se scoprono che hai partecipato a un sit-in pacifico in difesa dell’ambiente non ti fanno passare, perché potresti avvicinarti ai cantieri di una grande opera, ad un’area d’interesse strategico, e verresti considerato una minaccia. Questo ancora non avviene in tutti i territori anche perché gli enti locali e le Regioni spesso riescono ad evitare scenari di tensione sociale (se non altro per interesse politico) ottenendo miglioramenti, contropartite, o bloccando sul nascere tanti tentativi di abuso del patrimonio da parte di interessi monopolistici. Con la cosiddetta clausola di supremazia, il rischio diventa reale in ogni singolo luogo d’Italia. Se il Governo decidesse che un intervento su un territorio o un accordo commerciale con una qualsiasi multinazionale rivestano interesse nazionale, si arriverebbe certamente a scenari come quelli sopra descritti elevati a sistema, generalizzati ed estesi.
In questi anni, più che mai, è in atto un cambiamento epocale nelle coscienze di persone e comunità anche lontanissime geograficamente tra loro. La crisi è anzitutto sociale ed oggi è evidente a tutti che la vecchia accusa rivolta ai movimenti denominati spregiativamente “not-in-my-backyard” non regge più. Viviamo in un periodo storico in cui la difesa del territorio diventa globale, dall’Africa all’Europa e persino negli Stati Uniti, dove per la prima volta un movimento indigeno contro la devastazione territoriale sta mettendo in crisi la politica nazionale del gigante nordamericano. Nel mondo gli attivisti vengono uccisi o arrestati per il loro impegno, e molti di questi sono donne. I movimenti vengono guidati o assumono come simboli figure femminili carismatiche in difesa della terra e dei diritti delle popolazioni locali: in Honduras viene assassinata la leader indigena Berta Caceres, in Argentina viene incarcerata Milagro Sala, in Italia la battaglia No-Tav assume il volto di Nicoletta Dosio, ex professoressa di greco agli arresti domiciliari per ragioni politiche. L’elenco di donne e uomini detenuti o uccisi per difendere la terra potrebbe continuare per pagine intere.
Cosa c’entra tutto questo con il referendum? C’entra dal momento in cui la riforma Renzi-Boschi si pone in totale controtendenza con l’andamento delle vicende internazionali, ma soprattutto, di fronte a queste storie, appare chiaro dove il Governo Renzi abbia scelto di stare. Da quale lato della Storia.
Uno dei rischi più grandi è che, una volta caduti i pochi strumenti di tutela giuridica rimasti, il senso di impotenza delle comunità locali si trasformi in frustrazione, in disaffezione nei confronti dello Stato e in rabbia sociale. Le “comunità ribelli” in ogni caso, ancora una volta, sapranno incanalare quella rabbia in lotta politica, in percorsi collettivi sempre pacifici ma sempre più determinati. Non ci resta che votare No convintamente, sapendo che comunque vada ci sarà bisogno di non abbassare la guardia dopo, di battersi per un cambiamento vero a partire dai nostri luoghi quotidiani, in ottemperanza di una Costituzione ancora in gran parte inapplicata e con l’obiettivo di costruire una spinta civica nazionale dal basso, in grado di immaginare una grande Riforma per i Beni Comuni che sappia disegnare un’Italia inclusiva e di tutti, che non sia mai più un Paese senza la sua gente.