Città ribelli, movimenti e rappresentanza
Da qualche anno come realtà sociale abbiamo osservato, studiato e raccontato il movimento municipalista globale, che proprio dalle città (le articolazioni dello Stato più prossime ai cittadini) sta cercando di declinare in senso democratico radicale le sfide della rappresentanza per il governo pubblico dei Beni Comuni, della sostenibilità ambientale e sociale, della sovranità popolare sui territori. Lo abbiamo fatto aderendo alla rete internazionale delle “Fearless Cities”, le città senza paura, che mette insieme associazioni, movimenti ed esperienze politiche in tutto il mondo, per rimettere al centro i temi della democrazia partecipata e della difesa delle risorse pubbliche dall’aggressione, da una parte, del grande capitale internazionale, e dall’altra delle spinte centraliste e burocratiche di uno Stato novecentesco che non riesce a trovare una sua evoluzione in senso moderno, sostenibile e orizzontale.
La rete delle Fearless Cities ha avuto il suo primo incontro italiano a Napoli, appena tre mesi fa, ma in tutto il mondo questo movimento vive in un fermento di realtà che spaziano dall’attività sociale al fianco delle classi popolari, fino al governo di alcune delle città più grandi del mondo. Da una parte c’è chi guarda alle sfide del mutualismo e dell’autogestione, come il movimento Cooperation Jackson in Mississippi, negli USA, raccontato recentemente dalla rivista Jacobin. Dall’altra parte ci sono le amministrazioni di Barcellona, Vancouver o Valparaiso, metropoli dinamiche e contraddittorie dal punto di vista politico, economico e culturale. Ma è proprio l’unione di questi due obiettivi a rendere le città senza paura un contenitore aperto più che mai alla discussione sulla rappresentanza dal basso. Possono i movimenti entrare nelle Istituzioni, governarle, senza rinunciare alle loro prerogative di democrazia e conflitto? Può nascere un nuovo futuro per i movimenti delle classi subalterne, dalla coesistenza tra contropotere ed egemonia sul potere? La risposta a queste domande sarà il frutto del lavoro di questa rete di realtà molto diverse tra loro, anche ideologicamente. Ma per ora una cosa è certa, i movimenti stanno accettando la sfida.
Questa del 2019 è stata una super-primavera elettorale intorno al globo. Una miriade di importanti elezioni a tutti i livelli si sono accavallate e succedute, tra cui naturalmente le amministrative in Italia e le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo. Non si può intanto non parlare della cosiddetta “onda verde”, che assume aspetti politici anche diversi a seconda dei luoghi dove irrompe, ma che condivide ovunque il protagonismo di un movimento di giovanissimi che ha potuto rinvigorire le posizioni dei movimenti ambientalisti europei che da anni si battono per la giustizia climatica e per un paradigma di sviluppo radicalmente alternativo. Questo, in alcuni paesi d’Europa, ha significato anche un successo elettorale, per certi versi inaspettato, di alcuni dei partiti Verdi che meglio hanno saputo interpretare quell’onda. Dai più moderati Verdi tedeschi, ai più combattivi belgi di Ecolo (Ecologisti confederati per l’organizzazione di lotte originali), fino ai rosso-verdi spagnoli. La vera sorpresa delle elezioni europee sembra essere stata proprio quella dell’ambientalismo politico, rinforzato massicciamente dell’irruzione di un movimento non istituzionale. Gli stessi argomenti dei giovani ambientalisti nelle piazze, ma in chiave marcatamente sociale, sono alla base del Green New Deal portato alla notorietà con la proposta al Congresso USA di Alexandria Ocasio Cortez, e che resta una delle più attente analisi per provare ad affrontare le interconnessioni tra povertà ed emergenza climatica. La vera sfida per il futuro.
Ma proprio le “città ribelli” hanno avuto in questi mesi un banco di prova elettorale fondamentale. In Spagna l’onda nera degli ultraconservatori di Vox non ha sfondato come si credeva, ma le contraddizioni di un dibattito incastrato tra le polarità degli identitarismi, una rinascita anche ben auspicata del Partito Socialista, nonché le faide interne di Podemos, sono fattori che hanno segnato una battuta d’arresto per le confluenze municipaliste locali. Ciò nonostante il movimento in Spagna appare vivo e pieno di sorprese, per cui molte delle “città del cambiamento” hanno riconfermato i loro alcaldes. Tra le più grandi: Cadice con l’anticapitalista Kichi Gonzalez e Valencia con la coalizione eco-socialista Compromìs guidata dal sindaco Joan Ribò. Grande l’entusiasmo anche per Barcellona, vera e propria capitale del municipalismo mondiale, dove la ex attivista per la casa Ada Colau è stata riconfermata sindaca nonostante il risultato testa-a-testa contro lo sfidante indipendentista Ernest Margall. Pesa la perdita di Madrid della ex sindaca Manuela Carmena, il cui buon governo non ha retto di fronte alla crescita delle destre e la divisione maniacale delle sinistre.
Dall’altra parte dell’oceano esistono movimenti che da tempo hanno intrapreso un dibattito sulla rappresentanza che si intreccia con l’azione politica, come solo in America Latina sanno fare. In un contesto che da sempre sfugge alle categorie destra-sinistra in modalità eurocentrica, l’Argentina sperimenta, ormai ininterrottamente dalla crisi economica del 2001, forme di militanza sociale che si mescolano con la politica e non si fanno problemi a entrare nelle Istituzioni, senza rinunciare alla costruzione dell’autogestione, ma anzi portandola direttamente a diventare legge e pratica dello Stato. Il governo di destra del presidente Macri oggi rappresenta un ostacolo per questo processo, iniziato anni fa col movimento dei disoccupati piqueteros, ma i conflitti sociali in Argentina restano aperti. Delle Fearless Cities fa parte anche Ciudad Futura, una sorprendente realtà politica della città di Rosario, centro economico-culturale nonché città natale di Che Guevara. Il movimento – proveniente dalle lotte per la terra e contro il narcotraffico – aveva iniziato alcuni anni fa le sue attività occupando un vecchio stabilimento e iniziando a produrre latte per i più poveri attraverso una cooperativa. Nel tempo, questo gruppo di trentenni ha dato vita a scuole popolari, mercati solidali, centri sportivi e culturali all’avanguardia, con l’obiettivo di lavorare per creare alternative concrete e dimostrare che un modo diverso di fare politica è possibile. Nel 2015 si pone la questione delle elezioni, riuscendo ad eleggere quattro consiglieri comunali. Ciudad Futura si allarga, apre circoli e partecipa ad ogni elezione stringendo alleanze con altre forze di sinistra. Il 16 giugno di quest’anno il movimento ottiene il 20% dei consensi a Rosario, poche decine di voti sotto la coalizione di centrodestra.
Come nostra abitudine, non possiamo sorvolare su quello che accade a casa nostra. Nonostante i consensi del salvinismo imperante, c’è un’Italia municipalista che resiste. Alle elezioni comunali del 26 maggio, in città piccole e grandi, in un quadro nazionale dominato dalla nuova narrazione tossica del sovranismo etnico, ci sono sacche di resistenza che vivono nei movimenti e che non si tirano indietro davanti alla sfida del cambiamento e alla prova del voto, spesso con risultati che fanno ben sperare. Se i casi di Tramutoli a Potenza, Bundu a Firenze o Bruciati a Livorno sono i più noti, in altre città di medie dimensioni – e spesso in periferie difficili, quelle che la sinistra si dice aver dimenticato – pullulano i casi simili. La nostra Ciampino sembra non essere da meno, seppur in un quadro politico in linea col dato nazionale, che vede le destre vincere facendosi portavoce del cambiamento a seguito dei fallimenti del centrosinistra. Eppure, una coalizione che si ispira ai valori del municipalismo e che candida donne e uomini provenienti dalle organizzazioni sociali, ha raggiunto a Ciampino un incoraggiante 6,4% riuscendo ad eleggere un consigliere comunale, nella figura del candidato sindaco Dario Rose.
Insomma, la sfida che parte dai territori sembra essere davvero l’unico argine efficace alla svolta reazionaria del blocco neoliberista. E questo vale anche per quelle realtà più istituzionali, o comunque variegate ma non meno anomale, che governano le città insieme ad attori del centrosinistra classico. Da Padova a Brindisi, da Palermo ai Municipi romani 3° e 8°. Senza contare le Giunte ribelli di Napoli e di alcune città del suo hinterland, laboratori politici del movimento municipalista italiano. In tutti questi casi l’elemento di dirompenza arriva dai movimenti sociali, associazioni e comitati, realtà civiche e cittadini organizzati, attraverso un lavoro di conflitto e di proposta dell’alternativa che ha voluto approfittare del momento elettorale non come fine ultimo, ma come fase e come strumento all’interno di quel percorso che si pone l’obiettivo di società più giuste, femministe, ecologiste, democratiche, popolari. Persone e realtà che non compaiono dal nulla ogni quattro o cinque anni per chiedere voti, ma vivono e militano sul territorio ogni giorno, insieme al proprio popolo di riferimento, scontrandosi con un potere che si nutre di egemonia economica e di reti clientelari apparentemente imbattibili al momento del voto. Imperi politici inseriti in strutture di rappresentanza modellate appositamente su quei meccanismi di potere e di delega una tantum. Ma nonostante tutto, le città ribelli saranno ancora per molto tempo in prima linea, a combattere e costruire l’alternativa, forti della convinzione in un mondo migliore a partire dai territori dove la gente vive, lavora, lotta, ama e difende il proprio avvenire.