Dio, litio e piombo: storia nascosta di un golpe
La wiphala sventola accanto alla bandiera nazionale boliviana, in mano agli indios, ai contadini e ai minatori che stanno protestando contro i militari e a sostegno di Evo Morales, il primo presidente indigeno e il primo a dare educazione, welfare e diritto di cittadinanza a migliaia di reietti dalla faccia scura e dalle lingue arcaiche. Quella bandiera a scacchi colorati rappresenta la Plurinazionalità, il carattere distintivo della moderna Bolivia. Essere uno Stato Plurinazionale significa che ognuno ha cittadinanza piena, ogni popolo ha diritto alle sua forme di democrazia locale, ogni cultura è rappresentativa della Patria nella propria diversità. La Bolivia di Evo è stata (ed è) uno dei primi esperimenti di ripensamento dello stato-nazione borghese in luogo di qualcosa di nuovo. Una Patria orgogliosamente sovrana e indipendente, ma non più escludente, non più patriarcale, non più razzista, non più classista. L’unico paese al mondo ad avere tra i suoi valori fondativi, scritto nero su bianco in Costituzione, la Pachamama, la Madre Terra, che si traduce nell’obiettivo del governo Morales di rendere il paese quasi totalmente libero dalle energie fossili entro il 2025.
Come si può non pensare al Rojava, con il suo confederalismo democratico, avanguardia di riscatto per le diversità etniche, religiose, sessuali, culturali in Medio Oriente? Entrambi i sistemi, seppur diversissimi, sono oggi sotto attacco da parte di un potere globale egemone, militarmente e politicamente. Non solo per via delle ricchezze strategiche di questi paesi (petrolio e gas nel caso della Siria del Nord, il preziosissimo litio nel caso della Bolivia), ma anche perché essi rappresentano due modelli politici che mettono in discussione il discorso monolitico creato all’indomani della guerra fredda. Il Rojava rappresenta in questo senso una diversità intollerabile e quindi, finito il suo ruolo militare contro l’Isis, è stato tradito da Mosca e da Washington e lasciato sbranare dall’antico nemico turco. La Bolivia è stata a lungo un buon alleato della Russia, eppure il suo modello plurinazionale è stato, non a caso, l’unico sacrificabile in Sud America in nome di un nuovo equilibrio mondiale che vede la quadratura del cerchio nei rapporti tra ultra-conservatori russi e nordamericani. Non è un caso che il leader della sollevazione civico-militare contro Morales sia un uomo di quell’ambiente, Luis Camacho, ambiguo oligarca multimiliardario, cattolico fondamentalista che ha giurato di far governare la Bibbia sulla Bolivia come ai tempi dei conquistadores.
Lo stesso Putin se l’è cavata con un comunicato sbrigativo in cui criticava il golpe ma allo stesso tempo si augurava pacificazione senza interferenze estere. Un modo carino per lavarsene le mani, ma senza compromettere il legame con un alleato potenzialmente non ancora fuori dai giochi. Parlando invece di Camacho, l’uomo chiave dietro al golpe boliviano, non si può non menzionare il dipartimento di Santa Cruz, una vasta regione che riveste un ruolo importantissimo soprattutto a causa della ricchezza del suo sottosuolo. A Santa Cruz comanda una cupola di potere composta da impresari, latifondisti, chiese evangeliche e lobbisti minerari. E’ la borghesia creola di un’America Latina profonda e coloniale. Sono le élite che non hanno mai mandato giù i piani di nazionalizzazione del governo del Movimiento al Socialismo. Appena Morales ha assunto la carica, nel dipartimento sono riemerse le vecchie spinte indipendentiste, con l’obiettivo di staccare Santa Cruz dal resto della Bolivia e farne uno stato fantoccio, gestito da quelli di sempre, che avrebbero così continuato a fare affari privati con le multinazionali del litio e del gas. Siamo nel biennio 2008-2010, nonostante Santa Cruz avesse ottenuto uno statuto autonomo dopo un lungo braccio di ferro col Governo, un gruppo di caudillos locali decise comunque di spingere per l’indipendenza attraverso la strada della cospirazione armata.
Questa impresa sovversiva, che sembra avesse tra i possibili obiettivi anche l’assassinio di Evo Morales, era guidata da un gruppo di avventurieri con la doppia cittadinanza, uomini bianchi nati in Bolivia ma che avevano vissuto quasi sempre nei paesi d’origine dei genitori, soprattutto nell’est Europa. Tra questi c’è la figura misteriosa e per certi versi affascinante di Eduardo Rózsa. Giovane comunista di origini ungheresi, giornalista, spia del KGB, soldato di ventura, poi passato nel campo del nazionalismo croato e infine convertito all’Islam radicale. Dopo aver combattuto da mercenario in ex-Jugoslavia, Ròzsa decide di tornare nella natìa Bolivia vestendo i panni del salvatore della Patria ma, paradossalmente, con l’obiettivo della secessione! La polizia boliviana lo uccide in una sparatoria nel 2009 dopo averne scoperto il piano eversivo, in un episodio dai contorni non ancora chiari e definiti, come d’altronde era stata tutta la sua vita. Aveva amicizie importanti negli ambienti della sinistra venezuelana, tanto che pochi mesi prima di morire concesse un’intervista, quasi un testamento, ad un noto periodico chavista. Infine è appurato che Ròzsa fosse il contatto tra l’estrema destra ungherese di Jobbik e alcuni ambienti islamisti che avrebbero dovuto finanziare quel partito.
Ad ogni modo le pretese indipendentiste di Santa Cruz fallirono e la mente politica di quel progetto, il croato-boliviano Branko Marinkovic, fascista dichiarato e criminale di guerra in ex-Jugoslavia, si auto-esiliò negli Stati Uniti. L’avvocato Marinkovic all’epoca era il leader di un movimento chiamato Comitato Civico di Santa Cruz, lo stesso movimento che oggi, abbandonate le mire secessioniste, ha guidato la protesta contro Evo Morales e ne ha architettato la caduta da presidente della Bolivia. Il Comitato ha un’ala giovanile, dietro la quale si maschera una struttura paramilitare violentissima. È accusata dalle organizzazioni dei diritti umani di essere una specie di Ku Klux Klan, i cui adepti fanno il saluto nazista nei video-comunicati e oggi sono i responsabili degli assalti contro militanti ed eletti del MAS. Nel 2019 la presidenza del Comitato Civico passa a Luis Camacho, figlio del fondatore del movimento ed erede di quel gruppo d’opposizione che in pochi anni è passato dal separatismo al nazionalismo borghese, bianco e ultra-cattolico. Lo stesso che oggi si appresta a diventare un attore di primo piano nella politica della Bolivia.
L’ultima tappa del processo golpista, com’è noto, è stata l’auto-proclamazione a Presidente di Jeanine Añez, avvenuta in Senato ma senza il quorum necessario per legge, con l’assenza di tutti i senatori del MAS. Stiamo parlando di una delle facce ritenute più presentabili della destra locale, ma di chi si tratta veramente? Da sempre una figura defilata, fervente cattolica, ha provato a costruirsi un profilo da liberale ma, purtroppo per lei, è famosa in Bolivia quasi solo a causa di alcuni tweet di 6 anni fa, in cui definiva gli indigeni “satanici” la cui presenza non sarebbe tollerabile nelle città, ma che andrebbero sostanzialmente relegati nella giungla. È sposata con un politico colombiano, un parlamentare di second’ordine del partito Conservatore. Il partito di Añez invece è il Movimiento Demòcratas, proprio lo stesso che governa da sempre Santa Cruz, guarda caso, essendo anche lei una fiera sostenitrice dell’autonomia per le regioni ricche.
I contorni e le sfumature di quello che è successo l’11 novembre 2019 emergeranno solo col tempo, ma è evidente che c’è una somiglianza tra l’epopea di questo gruppo di oppositori boliviani e i profili politici delle estreme destre di tutto il mondo. Se l’opposizione ufficiale e “moderata” di Carlos Mesa (lo sfidante di Evo alle elezioni) è apertamente appoggiata dai settori politico-finanziari mainstream di Washington, il gruppo radicale di Santa Cruz si presenta invece con un profilo più opaco, anche dal punto di vista dei rapporti internazionali, che si perdono nelle maglie della rete mondiale degli etno-nazionalismi. Vorremmo poter sperare in un serio giornalismo indipendente abbastanza da mettere insieme i pezzi e capire fin dove arrivano i tentacoli di questo golpe, orchestrato e desiderato da tempo negli ambienti del capitalismo statunitense, ma di certo non ostacolato e perfino tollerato da chi in teoria aveva interessi, anche solo economici, a difendere il governo Morales. Un governo che non è stato sempre giusto né sempre coerente, ha commesso errori politici e di valutazione (qui una voce critica interessante), prestando il fianco ad un’alternativa sicuramente peggiore, oscura, anti-popolare e interessata per proprio tornaconto a distruggere ciò che di buono, invece, la presidenza Morales ha fatto per il popolo boliviano.
Restano gli indios, gli operai e i contadini con le mani callose a sventolare la wiphala. Restano i movimenti sociali di tutta l’America Latina a riempire le strade delle Capitali per opporsi al progetto di cancellazione del sogno socialista e plurinazionale della Bolivia, che lotta contro il suo destino coloniale, sbranata e abbandonata dagli Imperi globali.