Frontiere, repressione e fango: Storia di un fallimento politico
L’onda lunga del decoro e della sicurezza, quella psicosi collettiva che sembra aver infettato gravemente tutti i partiti con responsabilità di governo in questo paese (Lega, Pd, M5S ecc.), ha raggiunto vette altissime in queste settimane. Retate su base etnica a Milano, un morto a Roma in circostanze ambigue a margine di un’altra operazione di polizia, la giunta capitolina contro la Caritas, e così via. Ma soprattutto, da quasi un mese, la campagna mediatica (senza fondamento giuridico) contro le Ong che salvano vite in mare al posto delle istituzioni. Tutti insieme appassionatamente, dal ministro Minniti alla sindaca Raggi, da Orlando a Di Maio, dai selfie ormai ridicoli di Salvini alle pantomime di un magistrato che agisce e parla fuori dai confini della legge, l’Italia sembra popolata da sceriffi impazziti impegnati a ristabilire l’ordine a suon di decreti, regolamenti, fango mediatico, operazioni di forza pubblica.
Le tanto acclamate “soluzioni”, ad un non meglio precisato problema, non stanno risolvendo e anzi stanno peggiorando quella che è la più grande emergenza umanitaria in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Non è questo il luogo per difendere le Ong nel loro lavoro, anche perché non vi sarebbe ragione di difendere chi sta facendo quello che dovrebbero fare gli stati membri dell’Unione europea, i quali, semmai, sono gli unici ad aver bisogno di una “difesa” per omissione di soccorso. In passato sono stati fatti passi nella giusta direzione – sporadici ma efficaci – per cercare di contenere il numero di morti duranti il viaggio migratorio e tentare di limitare fortemente le violazioni dei diritti umani nei luoghi dove i migranti transitano in viaggi disperati prima di approdare alle porte dell’Europa. Una su tutte, la missione Mare Nostrum, con tutti i suoi limiti, uno dei rari eventi per cui il nostro paese ha tirato fuori quel minimo di umanità e di intelligenza che servivano in un determinato frangente.
Perché Mare Nostrum era una buona idea? I dati ufficiali dicono che ha salvato migliaia di vite umane, arrestato numerosi trafficanti, ha pensato un rudimentale canale umanitario a partire dalla frontiera africana in mezzo al mare. Ed è proprio questo il punto. La “frontiera” non è una, ma grosso modo possiamo parlare di tre grandi frontiere tra il sud del mondo e la nostra Europa. C’è un’area in mezzo al Mediterraneo che è formalmente acqua di tutti e di nessuno. Mare Nostrum stabiliva in sostanza, con un atto unilaterale dell’Italia, che il nostro paese non sarebbe stato a guardare mentre migliaia di persone morivano stipate in barconi pericolanti, carichi di gasolio e abbandonati a loro stessi in alto mare, e decideva dunque di intervenire in acque internazionali per recuperare e soccorrere queste persone prima che il barcone raggiungesse le nostre acque. Tutto ciò ha funzionato, finché nel novembre del 2014 sbrigativamente Mare Nostrum è stata giudicata troppo costosa e sostituita con l’operazione Triton, gestita dall’agenzia europea Frontex, che però non è altro che una semplice missione militare di controllo delle frontiere europee. Il lavoro che faceva Mare Nostrum, in sostanza, hanno iniziato a farlo le Ong che oggi sono le uniche a entrare nelle acque internazionali per salvare quelle vite che altrimenti andrebbero incontro alla morte nove casi su dieci.
Di macro-frontiere però ne esistono almeno altre due. Una è la frontiera nord, caratterizzata dalla famosa politica dei muri. Mutevole, a macchia di leopardo ma tutto sommato stabile, passa per Melilla, per Ventimiglia, per il Brennero, per Idomeni. E’ la frontiera europea vera e propria, dalla quale però sono escluse, nei fatti, Grecia e Italia, tagliate fuori per ragioni geo-politiche e umanitarie. La Spagna ci rientra grazie al cosiddetto processo di Rabat stipulato tra l’UE e 27 stati africani, che fa del Marocco una delle tante nazioni-lager, una prigione a cielo aperto per chi vi transita, lontano dagli occhi dell’Occidente e in barba al rispetto dei diritti umani non garantiti nel regno nordafricano. Il processo di Rabat, insieme al processo di Khartoum e all’accordo recente con la Libia, spostano a sud la seconda frontiera, quella che si colloca lungo un asse che va dall’Atlantico al Mar Rosso e al Mar Nero, formata dai confini meridionali di Marocco, Algeria, Libia ed Egitto, e dai confini sud-est della Turchia. A nord di questa frontiera e a sud di quella dei muri, è il caos: Le maledette prigioni libiche, i trafficanti di uomini nel Sinai, le deportazioni in Turchia (ultima nazione-lager in ordine di tempo, coinvolta in un escalation autoritaria e beneficiaria di un accordo ad hoc con l’Europa). La triste verità è che di questo caos fanno parte anche gli hot-spot in Italia e i campi profughi in Grecia, cioè in pieno territorio UE.
La politica europea negli anni è stata dunque questa: spostare sempre più a nord la frontiera di casa nostra e sempre più a sud la frontiera asiatica e africana, di “contenimento”, lasciando in mezzo una fascia enorme di terra di nessuno. Dove quello che accade non è affar nostro! E pure se lo fosse non si deve sapere! E chi ci va a ficcare il naso, come le Ong, deve essere attaccato e distrutto dalla più potente arma democratica a disposizione:
L’opinione pubblica.
Nelle nostre città, quelle in cui si attuano gli sgomberi e le retate di polizia e nel frattempo non si trovano sistemazioni a norma di legge per i transitanti (vedi alla voce Baobab), l’onda legalitaria assume il volto della demagogia, dell’operazione-decoro che si arrende alla pancia di un pezzo di paese, più rumoroso di altri. E così Nian Maguette, l’ambulante senegalese morto mercoledì scorso durante una di queste operazioni, viene additato da quella parte di opinione pubblica come un “illegale”, che se non fosse stato illegale, incidente o meno, non gli sarebbe successo quello che gli è successo. Sui social media, in tv, sui giornali, è pieno di commenti del genere. A questo livello di disumanità si aggrappa la politica tutta, romana e nazionale, su questi discorsi d’odio e noncuranza della vita umana si specchia il discorso contro le Ong o l’abolizione di un grado d’appello per chi richiede l’asilo politico. Nian era un migrante economico e come tale, nell’Italia disegnata dai Minniti, dai Salvini e dai Di Maio, non avrebbe avuto diritto, nell’ordine: 1) ad essere salvato in mare da una nave umanitaria; 2) a ottenere i documenti con la possibilità di accedere a tutti i gradi della giustizia italiana; 3) a vivere.
Una cosa è certa, questo morto pesa sulla coscienza di molti.
Ps. A proposito di migranti economici: Moltissimi paesi di provenienza si trovano in una situazione dove governi ufficiali, gruppi ribelli o fazioni tribali, a seconda dei casi, prosperano politicamente ed economicamente sulla violenza, sull’intimidazione, sul traffico di esseri umani. Una percentuale alta – ma difficile da stabilire con esattezza – dei cosiddetti migranti economici, è composta da dissidenti o persone che rischiano la vita a causa di contesti politico-criminali ostili. Un “dissidente”, in molti dei paesi in questione, non è per forza un oppositore politico. In alcuni casi dissidente è chi boicotta la leva militare, in altri paesi tutti gli emigranti, in quanto fuggiaschi, vengono considerati dissidenti. E questo significa la perdita dei più elementari diritti anche in paesi “amici” dell’Europa, dove non ci sono guerre e spesso nemmeno dittature.