La guerra politico-giudiziaria dei conservatori
Negli ultimi tempi un neologismo anglofono ha trovato fortuna in alcuni contesti del mondo latino e mediterraneo: la parola Lawfare. Si riferiva in origine ad una strategia di guerra non convenzionale, nella quale lo strumento legale è usato come mezzo per ottenere una vittoria militare. Oggi il termine si riferisce ai procedimenti legali, nella maggior parte dei casi senza il sostegno concreto di prove, contro attivisti, leader sociali e dirigenti politici, da parte di grandi e piccoli poteri concentrati che utilizzano le propaggini del potere giudiziario per intimorire, denigrare, proscrivere o incarcerare quelli che considerano i loro nemici.
La persecuzione politica e il discredito sono gli obiettivi principali di questo meccanismo. Suoi principali alleati sono alcuni mezzi di comunicazione mainstream, che replicano costantemente le accuse, generando la massa critica necessaria per poter dispiegare o reiterare gli attacchi contro il nemico politico. Il caso più famoso è forse quello del Brasile, dove prima è stato usato questo meccanismo per rimuovere Dilma Rousseff dalla presidenza e poi per imprigionare l’ex presidente e principale candidato elettorale, Lula Da Silva, che oggi viene scagionato dalle accuse quando, tuttavia, ormai a Brasilia siede uno dei referenti mondiali della destra neoliberista conservatrice.
Oggi il principale attore globale che ricorre a questo meccanismo è proprio l’estrema destra, in particolar modo quando entra in posizioni di potere o in contatto con alte cariche pubbliche. Tuttavia, oggi come ieri, sistemi liberali e governi progressisti non hanno lesinato l’uso di strumenti di Lawfare contro sindacalisti, attivisti ambientali, parlamentari e figure politiche. In Francia alcune cariche pubbliche del partito France Insoumise sono state incriminate praticamente senza prove con accuse di “ribellione”, tra cui il candidato presidenziale Jean-Luc Mélenchon. Non parliamo solo di forze minoritarie e conflittuali, la guerra giuridica prende di mira soggetti che rappresentano vaste porzioni di elettorato. Molti sono gli appelli anche nel Parlamento Europeo per chiedere la cessazione, in tutto il mondo, di strumentalizzazioni giudiziarie per eliminare competitor politici.
In Italia abbiamo avuto casi di Lawfare da manuale. Prima fra tutte la vicenda di Mimmo Lucano: accusato e gettato in pasto a una macchina mediatica ostile, per aver costruito un modello di integrazione e lavoro popolare nel comune di cui era Sindaco. Delle ombre che il modello Riace avrebbe dovuto avere, come sosteneva l’accusa, poco o niente di penalmente rilevante è uscito fuori ad oggi. Anzi, solo pochi giorni fa il Consiglio di Stato ha definito addirittura “encomiabili” i progetti sociali di Riace che furono smantellati dall’allora Ministro Salvini per motivazioni apparentemente politiche. Lucano è stato destituito, allontanato dalla famiglia, coattivamente isolato dalla sua città, screditato e messo alla gogna. Al suo fianco sono rimasti uomini e donne da tutta Italia che hanno espresso la loro vicinanza a questo Sindaco rivoluzionario. Alle elezioni immediatamente successive è stato eletto un nuovo Sindaco vicino alla Lega, oggi miseramente decaduto per ineleggibilità (in un’elezione dove a Lucano, candidato consigliere, era di fatto stato impedito di fare campagna elettorale).
Ma gli strumenti del Lawfare non si abbattono solo contro chi riveste posizioni di leadership politica. In Italia abbiamo visto le strabilianti accuse di terrorismo contro esponenti della lotta NoTav, avanzate dalla procura di Torino: le attiviste e gli attivisti sono stati assolti solo dopo un’ampia campagna di delegittimazione mediatica. Abbiamo l’esempio delle accuse messe in piedi contro alcune ONG nel mediterraneo, poi archiviate per la mancanza di quelle “prove evidenti” che alcuni vantavano per dimostrare i legami tra ONG e scafisti, e che hanno fatto la fortuna elettorale di molti. Abbiamo recentemente il caso aberrante della sorveglianza speciale ai danni di Eddi Marcucci, militante che per aver sostenuto la lotta del popolo curdo contro l’Isis è stata giudicata “socialmente pericolosa” e dunque posta in un regime di semilibertà senza nemmeno l’ombra di un reato!
Alcuni mesi fa Officine Civiche ha intervistato l’avvocatessa argentina Gabriela Carpineti, esperta di Lawfare ed oggi Direttrice nazionale per l’Accesso alla Giustizia nel nuovo governo di Alberto Fernandez. Nell’intervista ci parla di un vero e proprio “potere di guerra, dove la persecuzione ai leader sociali si ripercuote in maniera ancora peggiore sui settori bassi della società. Se hanno incarcerato Lula, immaginiamo quello che succede ai ragazzi e alle ragazze dei quartieri popolari rispetto alla repressione quotidiana! Quando si produce una persecuzione nei confronti dei leader sociali, questo si ripercuote sempre con più violenza verso i settori indifesi”. Il Lawfare insomma si può riversare in ogni ambito della lotta politica. Quello che sta succedendo negli Stati Uniti è un esempio d’impunità del potere politico costituito, attraverso strumenti del potere giudiziario – tra cui gli sheriff offices – contro settori esclusi della società.
In Italia l’indipendenza della Magistratura ci ha messo, finora, al riparo da eccessi eversivi di persecuzione politico-giudiziaria (con eccezioni, come abbiamo detto, da far accapponare la pelle). Per questo, quando anche nei nostri territori vediamo le avvisaglie di un sistema d’attacco fin troppo globalizzato dai settori conservatori, dobbiamo mantenere alta la guardia senza perdere la fiducia nella giustizia. Senza voler fare paragoni eccessivi, ma anche nei nostri quartieri, nelle nostre città, il potere politico utilizza da svariati anni gli studi legali per sferrare attacchi contro avversari politici di qualsiasi tipo. Non solo, allora, dobbiamo dimostrare attivamente supporto agli attivisti raggiunti da procedimenti giudiziari che ricordano questi meccanismi, ma in particolare ai comuni cittadini che potrebbero sentire inibito il proprio diritto ad esprimersi liberamente. La giustizia farà il suo corso, sul garantismo non si discute. Alle organizzazioni popolari il compito di supportare quei cittadini – ancor più se accusati in base ad opinioni politiche antifasciste – affinché nessuno resti solo e siano garantiti fino in fondo i diritti costituzionali.