Te la do io l’Europa
Dopo un volo di due ore scarse gli occhi si fanno ripieni di sonno e del verde che divide, fra forme scoscese e lunghe pianure, la Grande Parigi dalle regioni del Nord e Pas de Calais.
Se di Turismo si tratta, nel mio caso particolare esso unisce due visite piuttosto tardive nella mia esistenza ormai quasi trentennale: da un lato la prima volta in terra francese, dall’altro la prima visita nei luoghi dove lavorarono poco più che ventenni i miei nonni, dove nacque mio padre e dove ancora vive una parte molto bella della mia famiglia.
Insomma una visita in terra francese da italiano ormai stabilmente impiantato in Germania, in quella che una volta era la Germania-Est.
Mentre il verde delle campagne francesi invade insieme al cielo plumbeo la mia vista su questa lunga strada l’immaginazione si fa agile nel richiamo ai racconti, alle mille memorie familiari di fatti ed episodi avvenuti fra la fine degli anni ’40 e la metà degli anni ’50 in quel contesto che sto andando a conoscere, così nuovo e familiare allo stesso tempo, teatro di narrazioni che hanno accompagnato tutta la mia infanzia, giovinezza e parte dell’età adulta.
Storie di lunghi viaggi in treno, in piedi, di chiacchiere con sconosciuti accomunati solo da una stessa lingua, di venditori di generi alimentari da cui farsi capire in un idioma sconosciuto destinato a mescolarsi forse in eterno coi vecchi dialetti dei paesi e delle famiglie lasciate al di là dei binari, i paesi che si visitano una volta l’anno d’estate per farsi pieni i polmoni.
Si, i polmoni. Perché questa è anche una storia di miniere, di cunicoli bui, stretti, profondi, dai quali a volte si esce vivi per miracolo, per aver intuito che quell’esclamazione in una lingua sconosciuta, forse polacco, o belga, o magari marocchino, voleva dire “Attenti!” oppure “Spostati!”.
Non è un viaggio a senso unico quello della Memoria, che ogni tanto torna a nascondersi dietro quella curva che ci chiede di percorrere per scorgere il nuovo e inatteso panorama.
Si, perché ad un tratto, come in una composizione surrealista o in un quadro di Dalì o Escher, fra il paradossale e l’onirico succede che il palcoscenico di un mattino francese di inizio Aprile si veste di una scenografia degna dell’Antico Egitto, quasi fosse una delle tante pittoresche rappresentazioni della verdiana Aida con presenti le più alte autorità sul palco d’onore.
Sull’orizzonte si stagliano quelle figure che gli antichi ci hanno abituato a riconoscere come il sigillo del patto celeste fra l’Uomo e il Regno del Cielo, incarnato dal Potere Assoluto Temporale e Spirituale dei Faraoni e reso plastico da architetti visionari e fiumane di schiavi.
Ma queste Piramidi non sono baciate dai venti del deserto, e i loro profili non sono figli dell’ingegno di qualche maestro muratore, bensì di un lento ma inesorabile accumularsi di materia trasportata da uomini anche loro partecipi di un piccolo rapporto privilegiato con le stelle.
Si, quelle stelle che li accompagnavano al mattino e li salutavano a sera, quando, negri come gli antichi esecutori dei progetti millenari, si infilavano nelle docce e poi di corsa a casa, qualche ora di sonno e si ricominciava. Nei cunicoli. Nel buio. Spalla a spalla coi compagni sconosciuti.
Questa moderna “Valle dei Re” si staglia per tutto il territorio ai confini fra Francia, Belgio, Lussemburgo e Germania Occidentale.
Non fu l’inizio di alcun Regno del Cielo sulla Terra.
In quella lingua di terra, anche fra le facce sporche di centinaia di migliaia di lavoratori, fra le chiacchiere incomprensibili della spesa, fra baracche di legno umido e piccole stazioni da poco riverniciate e affollate di nuovi arrivi, a due passi dalle trincee che inghiottirono generazioni di ventenni fra il 1914-1918 e di nuovo gli anni 1940-1944, nacque la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio.
Forse è per ripagare quell’antico debito di luce con le generazioni fondatrici che le nuove, modernissime sedi delle più alte istituzioni dell’odierna Unione Europea hanno privilegiato il vetro e i più aggiornati materiali in circolazione per farsi interno ed esterno al contempo , culla plastica del progetto che fu grande sogno di pace di Schumann, De Gasperi, Monnet, Adenauer, e che iniziò ad attuarsi proprio tramite la condivisione di quelle risorse un tempo drammaticamente divisive, oggi lavorate dalle mani sporche di lavoratori fino all’altro ieri arruolati su parti diverse degli stessi fronti di guerra.
Ma le architetture di Bruxelles non si fanno incantare troppo dalla retorica che, si sa, se si sostituisce ad una “narrazione viva” , è sempre pronta a trasformarsi nella lingua ufficiale del Regno dei morti.
Ed ecco che a me, pochi mesi dopo quel viaggio attraverso un moderno Stargate, da studente di un importante Centro di Studi europei tedesco si aprono le porte di quei palazzi e di quelle istituzioni.
Chi mi conosce personalmente, così come chi mi ha conosciuto durante quei dieci pienissimi giorni di scuola di formazione politica denominata “Shaping Europe”, sa che la mia è la partecipazione di un outsider, di un musicista fra decine di dottorandi in legge, studi europei, filosofia, scienze politiche, semiotica e quant’altro. A chi mi ha chiesto perché io sia qui non ho potuto rispondere altrimenti che rimandando ad una disciplina che, direttamente o indirettamente, fianco a fianco a quei racconti con cui inizia questo articolo, ha segnato e segna la quotidianità della mia vita e della mia famiglia: la Politica.
O per meglio dire, un’idea della Politica.
Si, una politica che, per sua stessa definizione, poteva farsi sfondo e a volte fonte stessa di significato delle esistenze più varie, siano esse votate all’arte, alla funzione pubblica, al lavoro manuale, al lavoro della terra, alle professioni, all’esercizio spirituale, etc. Insomma la politica che ha portato Giuseppe Di Vittorio a difendere i diritti e gli interessi degli analfabeti nel parlamento italiano e che allo stesso tempo ha ispirato Don Lorenzo Milani ad educare quegli stessi analfabeti affinché, un giorno, potessero essi stessi divenire partecipi attivi di una società più giusta ed equa.
La Politica che ha permesso a un giorno qualunque di un’oscuro Maggio del 1978 di brillare cancellando l’Istituzione del Manicomio dietro al nome di Franco Basaglia.
La Politica, si anche quella, che lentamente ed inesorabilmente attraverso tappe molteplici ha tradotto in Istituzioni le visioni utopiche di pochi grandi statisti sparpagliati per il continente europeo e divisi da fronti di guerra allora insormontabili.
Quegli statisti furono Altiero Spinelli, Konrad Adenauer, Robert Schuman, Jean Monnet, Henri Spaak, “Anima” di quelle pionieristiche esperienze di condivisione del lavoro e delle risorse (CECA), il cui “Corpo” finì per essere quella Unione Europea in eterno divenire ma già almeno sulla carta ampiamente in grado di incarnare ciò che in tema di Diritti, Welfare, Consumi, Ambiente il mondo Occidentale di allora come di oggi esprime nelle sue vesti migliori.
Filtra la luce dei cieli del nord in questi imponenti palazzi di Rue des Charlemagne a Bruxelles, e nell’oscurità restano per ora solo le cabine dei 28 (presto 27) traduttori istantanei pronti a rendere ognuno nel suo idioma le immagini e i concetti di questa nuova, odierna politica che parla ad una platea ormai di quasi 500 milioni di cittadini.
Ma la parola per ora sta a noi, giovani rappresentanti di quella “generazione Erasmus” venuta a “modellare l’Europa” o forse almeno a formarsi per farlo.
Ed è forse proprio qui che questo mio spazio defilato da “outsider” mi propone una visuale interessante, quasi privilegiata, dalla quale osservare il venire alla luce di questa nostra idea di Politica, di Europa, di avvenire.
Innanzitutto si palesa la prassi del Centro di Studi europei, di chiara ispirazione social-democratica, tutta fatta di incontri e lectures aventi come perno centrale il punto di vista e la visione tedesca sugli affari europei, dati ,come è ovvio, come gratuitamente giusti e migliori di qualsiasi alternativa, sia essa pratica o teorica.
Una visione che perde di vista una questione fondamentale di cui proprio la Germania riunificata dovrebbe farsi portatrice principale, ovvero il bisogno di politiche che siano in grado di coniugare sul lungo periodo i bisogni, i costumi, le tendenze e le strutture tanto dei paesi che hanno alle spalle una storia legata al Patto Atlantico (Europa dell’Ovest) quanto quelle dei paesi reduci dal Patto di Varsavia (molti dei quali oggi riassunti nel patto degli euro-scettici di Visegrad).
Questo atteggiamento è assente, così come, ma era prevedibile, è assente qualsiasi parvenza di inclinazione che vada dalla curiosità al puro interesse intellettuale per quell’Europa del Sud, mediterranea ed estranea alla cultura protestante e ordoliberale, oramai declassata ufficialmente al rango di “disobbediente seriale” nel consesso europeo.
Ma è quando la parola passa ai “giurati” (i partecipanti al seminario) che a mancare all’appello è di nuovo un valore che assume il suono di un vecchio idioma mediterraneo e dal sapore ormai epico: la Democrazia.
In dieci giorni di incontri, workshop, colloqui, lectures fra i palazzi delle istituzioni europee ( Commissione europea, Consiglio europeo, Corte di Giustizia europea di Lussemburgo, parlamento europeo di Bruxelles, ambasciate varie, etc.) il vero tema assente sul tavolo è quello della Democrazia in Europa, vero asso nella manica di tutti i più grandi movimenti populisti-sovranisti che imperversano per il continente dalla Vistola al Tago da rinfacciare alle istituzioni comunitarie.
Per non cadere nel grande equivoco nel quale regna sovrana la propaganda dei suddetti movimenti, talvolta sbandieratori della tanto acclamata “Democrazia diretta per via telematica” i cui limiti e i cui dubbi caratteri democratici sono stati già ampiamente messi in esposizione dal nostro connazionale Movimento Cinque Stelle attraverso la piattaforma Rousseau, bisogna innanzitutto capire cosa si intende per “Democrazia” in senso ampio.
Quali sono i tempi della Democrazia?
Quali i suoi spazi? Il suo perimetro?
Non rischia di suonare perfino contraddittorio affermare che un organismo politico come l’UE, nata dallo sviluppo di altre istituzioni comunitarie frutto di Trattati intergovernativi avallati da alcun procedimento democratico, debba oggi materializzarsi in un corpo sempre più democratico?
Iniziamo dal fare presente come lo svolgersi di regolari elezioni con molteplici partiti non sia sinonimo di Democrazia. Ciò avveniva nella Repubblica Democratica Tedesca (che di democratico non aveva nulla, a parte il nome), avviene ancora oggi nella Russia di Putin e nella Turchia di Erdogan, avvenne nella tornata elettorale del 1924 in Italia, come in molti altri regimi che noi stessi non definiamo democratici o pienamente tali.
A tale status di “dubbia democraticità” o di assenza di Democrazia sarebbe da ascrivere anche un ordinamento dello Stato che prevederebbe lo svolgimento di elezioni mediante democrazia diretta (magari attraverso portali telematici) indette da un Premier-Presidente direttamente eletto cui spetterebbero allo stesso tempo il potere di nominare e dimettere i propri ministri e sciogliere le camere per poi indire la tornata elettorale. Insomma anche la favola dei governi non eletti dal popolo è facile da smontare se si penetra ancora più in profondità nel significato del concetto di “Democrazia”.
E’ qui che allora diviene centrale l’accento da porre sugli spazi e sui tempi proprio della prassi democratica che già nel Novecento ha visto il superamento delle strutture totalitarie in Europa. Strutture che non furono superate semplicemente introducendo quello che in Italia nel 1946 e nella Germania Federale nel 1949 rappresentò il primo suffragio universale post-dittature fascista e nazista, bensì attraverso un lungo percorso che il Cancelliere dell’allora Repubblica federale tedesca Willy Brandt si sentì in dovere ancora una volta di richiamare nel 1969 con la famosa espressione “Wir müssen mehr Demokratie wagen!” (trad. “Dobbiamo spingere la Democrazia ancora oltre!). Ciò significava che quel grande ordinamento dello stato post-totalitario rappresentava la struttura di un modello di convivenza democratico che andava a cercare la sua Forma in tutte le possibili emanazioni della Democrazia nella Società, dal mondo del Lavoro alla Scuola e all’Università, dalle Libere professioni alle classi dirigenti statali, dai rapporti interreligiosi al tema delle Pari opportunità, dai livelli di governance nazionale a quelli regionali e via via fino ai comunali.
Questo significò lo sviluppo della Democrazia nel trentennio social-democratico in Europa che andò dal 1945 al 1975-78, traducendosi in legislazione a tutela dei lavoratori, dei consumatori, delle imprese, delle minoranze etniche e religiose, delle donne, dei giovani studenti e non, degli ammalati e dei ceti più deboli in tutta l’Europa dell’epoca.
Fu questo il processo che costruì lentamente il collante fra le strette di mano fra De Gasperi, Schuman, Adenauer e Spaak e il sudore nella polvere delle miniere in quella “Valle dei Re” nella quale lavorò mio nonno come molti dei nonni di attuali beneficiari del “Progetto Erasmus” e di tante emissioni della attuale Unione Europea dal Portogallo alla Polonia.
Questo stesso processo fece delle Costituzioni europee vigenti, fra cui quella italiana, carte viventi nella vita quotidiana dei cittadini che durante quel trentennio videro affermarsi un quantitativo fino ad allora mai visto di diritti e di istituti a garanzia della libera convivenza democratica, nel nome dell’allargamento del perimetro democratico affinché l’inclusione di sempre nuovi soggetti sociali e politici in un comune sistema potesse sbarrare il cammino a possibili rigurgiti anti-sistema e anti-democratici.
Tutto ciò avvenne e fu possibile in virtù di una idea della Politica come luogo di discussione e di confronto fra posizioni e sensibilità fra loro a volte incompatibili (basti pensare alla Costituzione italiana scritta insieme da democristiani, socialisti, comunisti, azionisti, repubblicani e liberali) e come luogo di inclusione attraverso la scolarizzazione di sempre nuovi soggetti sociali, coinvolti anche in virtù di una “Narrazione”che li ha resi compartecipi del processo costituente e democratico delle varie realtà in questione.
Una tale idea di Politica non corrisponde a un manipolo di carrieristi tecnici che approcciano freddamente a problematiche mascherate di numeri e formule e rispondendo a dogmi politico-economici prestabiliti in nome di categorie, quali l’efficienza a tutti i costi, proprie del mondo della Tecnica.
Per sua definizione la Politica deve porsi su di un livello superiore, cercando di coniugare la rappresentanza e la governabilità senza mai abdicare a quel bisogno di rendere vivo giorno per giorno “casa per casa e strada per strada” (cit.) quel regno del confronto e della discussione in grado di rendere vivente qualsiasi struttura politica democratica.
Constatare la mancanza di tale approccio nei Think-tank della politica europea, in special modo a trazione franco-tedesca, spiega in modo quasi esauriente il dilagare di un mondo sempre più esteso, arrabbiato, barricato facente riferimento a pensieri regressivi che hanno saputo seminare e raccogliere consenso in quei territori lasciati scoperti dalle istituzioni europee e nazionali.
Così quelle piramidi da cui siamo partiti nel nostro viaggio in Europa, nel Nord della Francia, tornano a circondarsi di deserto.
Non il deserto che culla la Sfinge e le monumentali sepolture di Cheope, Chefren e Micerino, bensì quel deserto che ha inghiottito l’alimentari, il parrucchiere, il bar, il ristorante, la sala da ballo dove forse i miei nonni o i loro coevi erano soliti spendere del tempo libero, socializzare, confrontarsi a modo loro col vicino, la vicina, a volte stranieri, a volte no.
Quelle serrande bianche, chiuse, arrugginite delimitano oggi uno spazio morto e abbandonato fra strade vuote che si snodano fra gli sguardi sempre più sospettosi di abitanti che da dietro le tendine osservano quanto del loro spazio sia oggi invaso da chi ha il colore della pelle che ricorda quello sporco di polvere delle miniere dei loro avi.
E’ un altro spazio sottratto alla Democrazia, al confronto, allo scambio e donato al beneficiario di turno, nello specifico Marine le Pen.
E’ un altro vuoto creato da quell’idea di Politica promossa durante questa dieci giorni, con l’Anima in pace per aver comunque costruito ad intervalli regolari delle cattedrali nel deserto (centri commerciali e grandi catene) atte a soddisfare il profilo da “consumatore” dei suoi cittadini, ignorando quella sostanza che non compare nelle statistiche, ma che non tarda a emergere nei risultati elettorali che vedono il Front National egemone in queste aree.
La pioggia scende in modo diverso, sembra di quelle che si posano goccia dopo goccia sulle pagine di un libro fino a cancellarne il contenuto, la storia.
Così sembra svanire l’esperienza di quei “negri”che arrivarono qui 70 anni fa, ma che negri qui divennero grazie al carbone delle miniere e che oggi votano (loro o i loro eredi) contro i “negri” di oggi, oltretutto orfani di una narrazione propria riconosciuta dalle odierne istituzioni.
Una Narrazione fu anche quella dei “Rifugiati” dell’Est europeo riversatisi su Germania, Belgio, Francia, Lussemburgo e Olanda per fuggire da Stalin partendo dagli odierni paesi di Visegrad. Una narrazione dimenticata da questa Europa che continua a glissare nei confronti dei propri cittadini orientali sulla vera natura delle presunte “Rivoluzioni Pacifiche” del 1989, dietro le quali si nasconde, nella attuale Germania-Est su tutte, la più grande ed economicamente violenta esperienza di colonizzazione economica della Storia recente europea (vedi Treuhandanstalt) responsabile di aver reso intere popolazioni un agglomerato di individui senza Storia e senza anima, inclusi per decreto in un sistema economico senza i dovuti anticorpi sociali e soprattutto senza la mediazione (ancora una volta democratica) di partiti popolari (in primo luogo la CDU tedesca) in grado di guardare oltre l’orizzonte del consenso a breve termine e consapevoli della scarsa tenuta democratica di un sistema basato su strutture sociali, culturali e direi quasi antropologiche del tutto incompatibili con dei requisiti minimi di convivenza democratica.
Penso a questo e penso che alla fine di questa illuminante quanto politicamente estremamente deludente esperienza attraverso 4 Paesi fondatori della Unione Europea e nelle sue stesse sedi istituzionali sarà proprio quel popolo senz’Anima , quello di PEGIDA (Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) , ad accogliermi in un lunedì qualunque di una Dresda e di una Sassonia sempre più tese e dall’atmosfera sempre più cupa al coro “Wir sind das Volk!” (Trad. “Noi siamo il Popolo!”), che segnò l’avvio proprio di quelle “Pacifiche Rivoluzioni” del 1989.
Non riuscirei ad immaginare coronamento più adatto per un’esperienza che ha mostrato tutte le ferite aperte in seno alla nostra Europa, che lacerano quella che da una parte rappresenta una delle realtà istituzionalmente a carattere e indirizzo più progressista del nostro tempo, e che dall’altra si presenta in un preoccupante ritardo rispetto ai bisogni, alle paure e ai sentimenti profondi di quella che dovrebbe essere la propria gente e di chi arriva da fuori. Un ritardo di cui rischiano di essere complici due generazioni (noi e i nostri padri) ormai schiave di un pensiero unico che ha trasformato la Politica in una delle tante emanazioni della Tecnica, costantemente alla ricerca di salvatori in giacca e cravatta muniti di diagrammi, indici di gradimento, formule che rischiano di imporsi in maniera altrettanto dogmatica rispetto alle ideologie novecentesche, come ben osservato da Yanis Varoufakis già a Berlino nel Febbraio del 2016 nell’atto di fondazione del movimento DiEM 25 alla Volksbühne, a cui ebbi il piacere di presenziare.
Due generazioni, una di insegnanti e una di allievi, che stanno forse inconsapevolmente preparando il terreno alle fondamenta di nuove Piramidi che sembrano dare ragione al De Andrè de La Domenica delle Salme quando cantava “la Piramide di Cheope volle essere ricostruita, masso per masso, schiavo per schiavo, comunista per comunista”.
Sulla via del ritorno spesso sono poche le cose che ci fanno veramente compagnia, come i ricordi, i sospiri e le borse. Porto con me una vecchia borsa rossa acquistata a Berlino qualche mese fa in una bellissima giornata estiva, recante ancora una volta una frase di Willy Brandt: “Agisci nel tuo piccolo, ma pensando in grande”.
Forse c’è ancora la possibilità di invadere quel campo lasciato incustodito dalle istituzioni, dall’intellighenzia, da quelle generazioni di cui sopra per strapparlo ai distruttori del progetto europeo? Sono forse i nostri impegni da insegnanti, medici, traduttori, artisti, operatori nel sociale, padri, madri gli ultimi piccoli strumenti rimasti orientabili verso una idea di riappropriazione del perimetro democratico atta al ripensamento di strutture di rappresentanza adeguate ai nostri tempi in Europa? Non credo di sapere la risposta.
Dopo pochi secondi una voce dal sedile posteriore mi sussurra qualcosa e inizia a raccontarmi, con una fiducia basata su un sesto senso del momento, la sua storia.
Il suo racconto finisce così: “In Europa si rischia di perdere l’Anima. Tu sei un artista Enrico, non devi perdere l’Anima. Senz’Anima non esisti. Promettimi di non perdere la tua Anima.”.
Gli rispondo con gratitudine e una punta di commozione, e gli stringo forte la mano.
E’un tedesco da 26 anni, anche se lui ne ha 48 e ha vissuto i primi 22 in Nigeria.
Si chiama George ed è nero, dello stesso colore di quei minatori che guardavano le stelle due volte al giorno quando fra loro c’erano mio nonno e i miei zii.
Così finisce in un Autobus da Bruxelles diretto a Bonn questo viaggio ideale iniziato in un’automobile diretta da Parigi a Nord Pas de Calais.
Forse è questo cambio di mezzo di trasporto che mi fa sentire ancora più piccolo di fronte a questo Tempo pieno di nubi all’orizzonte.
Forse è grazie a George che ad un tratto questa mia piccola e insignificante Anima e ciò che resta dell’Anima di questa Europa in gioco il prossimo 26 Maggio sembrano procedere per mano fino a diventare, davanti ad un destino incerto, una cosa sola.