Testi e Canzoni di “Voglio vivere una città…”
1)La Città Vecchia
2) Via del Campo
Queste prime due canzoni che abbiamo ascoltato rappresentano il primo periodo della carriera artistica di De Andrè, e fin da subito nell’autore diventa centrale il tema della città, intesa come spazio dell’agire umano e del rapporto sociale. Ma già in questi primi due brani viene quasi svelato il percorso che in De Andrè porta dall’idealizzazione del tessuto sociale antico della città, un’epoca dove le contraddizioni erano contenute in rituali atavici, ironici e quasi carnevaleschi, fino alla degenerazione di quelle contraddizioni in una decadenza della condizione umana all’interno del tessuto urbano.
Questo percorso ovviamente non è ancora compiuto, ma già si passa dall’idealizzazione della città portuale degli anni 50 alla marginalizzazione dell’uomo nella civiltà urbana post-industriale. Se nella città vecchia ancora il boom economico non ha innescato quella metamorfosi nei costumi e nei comportamenti dell’italiano, in via del campo è già presente il senso di smarrimento di fronte a quella città “nuova” dove nasce un’umanità reietta che sarà la grande protagonista di tutta la lirica successiva dell’autore.
Questa umanità ai margini verrà dunque indagata da De Andrè punto per punto.
3) La collina
“La collina” parla di tutta quella misera gente morta accidentalmente (chi cadendo da un ponte mentre lavorava, chi bruciato in miniera, chi per aborto o per amore, chi in un bordello dalle carezze di un animale, o il suonatore Jones, colui che offrì la faccia al vento/la gola al vino e mai un pensiero/non al denaro, non all’amore né al cielo) che adesso dorme sulla collina del cimitero di Spoon River. Rappresenta una sorta di “affresco” di una società spersonalizzata nella quale i singoli si trovano a esaminare a posteriori un’esistenza fatta di rimorsi e rimpianti.
4) Il cantico dei drogati
5) Canzone del Maggio
Come abbiamo sentito, ne il cantico dei drogati la città impara a conoscere il fenomeno della tossicodipendenza, giunto insieme alle nuove tendenze dei movimenti giovanili intorno alla fine degli anni sessanta.
Ma con quegli stessi movimenti, però, la città diviene il teatro di un nuovo scontro generazionale e di classe, che tende a coinvolgere tutti i soggetti che vi vivono, in quello che sembra l’avvento di una nuova era di cambiamento. E’ la canzone del Maggio, dove la città diventa ribelle e cosmopolita, rappresentata dalla Parigi del maggio francese. Torna l’ottimismo, non più nei confronti di una città ancestrale e sicura, ma nei confronti di una città di cambiamento, che guarda al futuro e ad un mondo migliore per le nuove generazioni.
Ma le contraddizioni, anche in questo caso, tornano presto a galla.
6) La Bomba in testa
La canzone che abbiamo ascoltato è quasi una cronaca della metamorfosi interiore dell’uomo medio, totalmente investito dalla società che lo circonda, assumendo su di se’ tutte le contraddizioni del movimento che si appresta a divenire una inconsapevole pedina del potere. Le parole d’ordine del maggio francese tornano in un’accezione intimista e confusa. La città è ormai invasa da facce senza volto, che isolano l’essere umano in una dimensione interiore e psichica, non più collettiva. La ribellione nei confronti dello status quo è diventata espressione di questo isolamento che, oramai, domina la sua intera vita.
7)Rimini
8)Se ti tagliassero a pezzetti
Con queste due canzoni la città è tornata in provincia: ha inizio il ritorno verso l’antico, che però non è per forza un antico romantico o positivo. La città di provincia, Rimini, diviene il teatro delle disillusioni continue della sua protagonista, Teresa, metafora di generazioni che non hanno saputo dare seguito ai propositi utopici delle lotte intraprese. E’ il momento che prelude alla grande involuzione conservatrice e reazionaria degli anni a venire.
Se ti tagliassero a pezzetti compie un passo ulteriore verso la sensazione di una società che necessita di essere ricostruita altrove e con diversi propositi, in una dimensione primitiva e quasi religiosa. E’ un inno disincantato alla libertà e all’anarchia, dove la destrutturazione corporea significa distruzione della vecchia città, che si porta dietro gli orrori del potere, e ricostruzione della stessa per mano della natura e degli dèi. Nei suoi versi lambisce diversi avvenimenti storici a cavallo fra gli anni settanta e ottanta, su tutti la Strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980.
Nelle prossime due canzoni che ascolteremo, la narrazione dell’artista si sposta verso un’attenzione alle realtà particolari, alle loro possibilità di incontro e scambio, attraverso personaggi che viaggiano per il mare aperto e che vedono nella città un porto franco, che fa da punteggiatura al lungo viaggio di libertà che copre l’intera esistenza. La città non è solo il borgo genovese rappresentato in superficie, ma si espande nel villaggio globale mediterraneo, sia nelle tematiche che nelle sonorità.
De Andrè canta il Mediterraneo: Quel “mare nostrum” che rappresenta il più solido ponte tra culture della storia, ma che oggi è alla ribalta delle cronache come il più grande cimitero d’acqua del mondo, fossa comune di uomini e donne stranieri, respinti sulla porta d’accesso del mare. Sul Mediterraneo essi trovano le nostre città, i nostri centri portuali, le periferie dei CIE, dei centri d’accoglienza, i latifondi dei caporali, la xenofobia.
“Ombre di facce / visi di marinai
Da dove venite? / Dov’è che andate?
Da un posto dove la luna si mostra nuda
E la notte ci ha puntato il coltello alla gola”
Così cantava De André, usando parole che a noi ricordano l’attualità più nera della nostra storia europea.
9)Creuza de Ma
10)A Dumenega
L’ultimo dei due brani che abbiamo ascoltato, A duménega, racconta in maniera ironica il “rito” della passeggiata domenicale che il comune di Genova concedeva un tempo alle prostitute, per tutta la settimana relegate a lavorare in un singolo quartiere della città, secondo una politica di tolleranza e zonizzazione che le città moderne stanno cercando di imitare. De André riporta le scenate dei cittadini al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dal finto moralismo. La città rappresenta il porto che ripara dalle delusioni della storia, ma anche un luogo di vecchi rituali che simboleggiano le attuali storture della morale borghese, ancora dominante e anzi vittoriosa sull’utopia rivoluzionaria. Borghesia che viene dunque attaccata dalla satira dell’artista, il quale, come in una rappresentazione teatrale del medioevo, ne sposta l’ambientazione in tempi lontani e dialetti arcaici.
I tempi e i luoghi lontani, tuttavia, tornano ad essere travolti dalla storia. Le immagini ataviche e la multiculturalità del Mediterraneo vengono presto assorbiti dagli eventi che offuscano la speranza che unisce nord e sud, verso una nuova èra, per l’artista assai meno speranzosa, che unirà est e ovest.
11)La Domenica delle salme
La città diviene l’anonima e silente spettatrice, un po’ tramortita, di una “rivoluzione pacifica” che per De Andrè altro non è che la rivoluzione reazionaria che spazza via tutti i sogni e le utopie novecentesche. E’ il resoconto amaro e altamente poetico della caduta del muro di Berlino. La città torna cosmopolita e fortemente simbolica, però non è più la Parigi del maggio rivoluzionario, ma Berlino, Varsavia, Praga: euforiche ma spaesate di fronte ai “trafficanti di saponette” che stanno definitivamente importando il capitalismo nel mondo intero.
Le strade decadenti delle città dell’est Europa rappresentano la fine di un sogno, che trasforma la solitudine umana nell’unica vera normalità.
12) Disamistade
13) Khorakanè
14) Anime Salve
Tramite questo trittico De Andrè narra l’universo umano all’indomani della catastrofe silenziosa narrata ne La Domenica delle salme. E’ l’oggi, il mondo che viviamo nelle nostre città di tutti i giorni. Protagonista diviene una città che sembra desolata, intrisa di una pace apparente, dietro la quale si nascondono violenze, rancori, solitudini, emarginazione, in un’atmosfera di guerra permanente dello spirito. La guerra silenziosa di tutti i giorni, nelle nostre città divenute prigioni, dei popoli rom e sinti. La guerra degli ultimi e dei dimenticati, i migranti, gli stranieri, i poveri, i diversi. La guerra interiore dell’uomo solo, che ormai depone le armi di fronte alla sua anima, unica fautrice di tutti i sogni e di tutte le utopie.
L’ultima canzone che ascolteremo è Smisurata preghiera, eredità morale e spirituale dell’artista, che disegna un affresco della nuova società che si affaccia al nuovo millennio. Una società tutta incentrata sulla polarizzazione sociale fra “maggioranza” e “minoranza”.
Sembra una canzone scritta domani.
15)Smisurata Preghiera
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