Aderiamo alla manifestazione per il Kurdistan, perché ci riguarda tutti
L’associazione Officine Civiche aderisce formalmente alla manifestazione nazionale che si terrà a Roma il 24 settembre, in sostegno del popolo curdo e dell’esperimento politico in Rojava, per chiedere la fine dell’isolamento carcerario del leader curdo Abdullah Ocalan, contro le politiche repressive e di aggressione militare di Erdogan e contro l’accordo tra UE e Turchia sui rifugiati, organizzata dalla Rete Kurdistan Italia e dall’Ufficio d’Informazione sul Kurdistan in Italia. La nostra adesione va ben oltre la semplice testimonianza di supporto internazionale verso una situazione “lontana”, ma rientra a pieno titolo nelle battaglie per la democrazia, l’ambiente, i diritti civili che riguardano anche noi, la nostra comunità e il ruolo che le nostre realtà locali si prefiggono di ricoprire nel mondo attuale e nel futuro.
Questa estate, un ambiguo tentativo di golpe da parte di alcune forze interne all’establishment turco è stato sventato dai militari fedeli al presidente-sultano Recep Erdogan, aprendo il terreno per un secondo golpe, più lento ed efficace, contro ogni forma di dissenso, dalle opposizioni politiche al mondo accademico. Questa situazione repressiva tuttavia ha le sue radici antiche, da una parte, nella secolare lotta autonomista del popolo curdo e dall’altra nel crescente dissenso organizzato della gente turca, che ha vissuto il suo punto massimo nelle proteste del 2013 a Gezi Park. Entrambi i teatri di opposizione al regime, le montagne del Kurdistan e le città turche dei giovani ribelli, sono state represse nel sangue dalle forze armate e dai gruppi vicini a Erdogan e al suo partito, l’Akp.
Il popolo curdo, nell’est del paese, ha condotto la sua battaglia politicamente e militarmente per mezzo del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, il Pkk, dichiarato illegale e considerato un’organizzazione terrorista non solo dalla Turchia, ma anche da Stati Uniti e Unione Europea. Così, l’opposizione di sinistra curda ha dato vita ad una serie di partiti “istituzionali”, tutti sistematicamente banditi dallo Stato per la loro presunta vicinanza al Pkk. Fino alla fondazione dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli, che ha superato la caratteristica etnica delle precedenti formazioni aprendo alla società civile e alle sinistre di tutta la Turchia. L’ascesa sorprendente dell’Hdp, che prese il 13% alle prime elezioni, tolse all’Akp di Erdogan la maggioranza assoluta in Parlamento, fornendo al regime il pretesto per una nuova e più aspra stagione dell’accentramento di potere e della repressione del dissenso, particolarmente accentuata nelle regioni curde dove la situazione è sfociata nell’apartheid e nella militarizzazione del territorio.
Ciò nonostante, lo stesso Pkk ha rinunciato da tempo alle aspirazioni indipendentiste del Kurdistan, in luogo di una soluzione federale, multi-etnica, ecologista, femminista e socialista-libertaria, il cosiddetto “Confederalismo Democratico” elaborato proprio da Ocalan in carcere. Questa innovativa visione ideologica è oggi condivisa da molte organizzazioni curde nel mondo, compreso il Pkk e i corrispettivi partiti-gemelli, tra cui anche il Partito dell’Unione Democratica che opera in Siria attraverso le forze armate Ypg e Ypj, baluardi nella lotta contro l’Isis e supportati dalla coalizione filo-Usa. L’Occidente, dunque, da una parte del confine li considera terroristi, dall’altra alleati. Lo stesso Pkk, in Iraq, ha combattuto eroicamente contro l’Isis per liberare le aree popolate dagli yazidi, popolo minacciato dalla pulizia etnica del Califfato, anche laddove gli eserciti regolari forgiati dagli Usa sono scappati. Nel Pkk, infine, oggi militano non soltanto curdi, ma anche molti turchi braccati e perseguitati dal regime di Erdogan.
Il Confederalismo Democratico è oggi il modello di governo ufficiale nelle aree settentrionali della Siria sotto la guida dei curdi delle Ypg/Ypj e i loro alleati arabi, turcomanni, assiri, circassi e armeni. Il “Rojava – Federazione della Siria del Nord”, dove convivono pacificamente queste etnie, ha compiuto una rivoluzione inedita. Non chiede l’indipendenza dal resto della Siria, ma si considera un’entità federata di una futura Siria democratica, in previsione di una federazione democratica di tutto il Medio Oriente; a sua volta il tipo di governo è improntato su un modello di assemblee democratiche nelle città e nei villaggi, mentre il governo centrale ha pochissimi poteri. Solo le questioni etiche per ora vengono affrontate a livello centrale (una rivoluzione va fatta lentamente anzitutto nelle coscienze della gente), il resto delle decisioni avviene nelle assemblee elette localmente sull’esempio esplicito della polis ateniese. La Costituzione del Rojava si basa sui concetti fondanti del Confederalismo Democratico: tutti i cittadini sono uguali, la discriminazione è vietata, la pena di morte abolita, l’ecologia è un valore imprescindibile, la donna partecipa a tutte le sfere della vita pubblica, il matrimonio è solo consensuale, il lavoro minorile è proibito, la laicità è garantita, tutti possono esprimere pubblicamente il proprio pensiero, la libertà religiosa è un diritto, ecc.
Ebbene, proprio questo modello rivoluzionario oggi è sotto attacco da più fronti. Per quasi tutto il corso della guerra siriana lo Stato turco ha avuto atteggiamenti di cooperazione più o meno espliciti con gruppi jihadisti e perfino con l’Isis in funzione anti-curda, ma il 25 agosto scorso la Turchia decide di entrare direttamente con i propri militari in Siria, con lo scopo dichiarato di colpire l’Isis e i curdi in egual misura. La Turchia non arriva da sola, ma combatte al fianco di alcuni di gruppi jihadisti, per lo più eredi della vecchia rete di al-Qaeda. I dubbi sorgono dal momento che i territori occupati dall’Isis vengono “liberati” dai soldati turchi senza nemmeno combattere, mentre tra la Turchia e le forze del Rojava (che nel frattempo ha fondato la coalizione militare multi-etnica delle Forze Siriane Democratiche) è guerra aperta. Le forze armate turche e le sue milizie alleate fanno terra bruciata, colpiscono i villaggi, sparano sui civili, il tutto con un silente lascia-passare degli Usa (ancora formalmente alleati dei curdi, ma allo stesso tempo alleati storici della Turchia). In poche parole l’obiettivo di Erdogan è quello di minare e indebolire il modello politico del Confederalismo Democratico (che si sta diffondendo rapidamente oltre il confine in Turchia) e spezzare definitivamente la continuità fisica del Rojava lasciando un’ampia zona di confine turco-siriano controllato dalle milizie jihadiste.
Il modello politico sotto attacco è un unicum storico, non solo per il Medio Oriente. Il Confederalismo Democratico è oggi fonte d’ispirazione politica, anche e sopratutto pragmatica, avendo dimostrato di poter governare fattivamente territori complessi, diversi tra loro socialmente e politicamente, arrivando a fornire soluzioni pratiche a problemi irrisolti per secoli. Basti pensare che il Rojava oggi è l’unico governo mediorientale della storia ad aver annunciato la volontà di un superamento dell’energia basata sul petrolio – del quale il territorio siriano è ricco – una scelta così radicale che, da sola, spiegherebbe le aggressioni militari e l’isolamento del Rojava nel panorama internazionale. Ma non è l’unica ragione.
Il modello municipalista, che sta alla base del Confederalismo Democratico, trae origine dalla antica Grecia, passa per l’esperienza della Svizzera del ‘600 e dalle esperienze delle prime colonie in Nord America, per arrivare fino al neozapatismo messicano degli anni ‘90. Ma con il Rojava questo modello arriva ad una maturità tale, anche grazie alle riflessioni pragmatiche di Ocalan, che si pone come sistema risolutivo per l’intero Medio Oriente e per l’intero mondo.
L’esperimento confederalista curdo influenza direttamente esperienze di governo degli enti locali perfino in Europa, basti pensare a casi di successo come la Barcellona della sindaca Ada Colau, che attinge a piene mani da teorie e pratiche municipaliste adattandole con risultati sorprendenti al contesto di una metropoli euro-mediterranea. La stessa cosa si può dire per Cadice e Madrid, o perfino città italiane come la Messina di Renato Accorinti o l’emblematico, seppure più complesso, esempio di Napoli della coalizione di De Magistris. Tutte città che vedono nel pensiero neo-municipalista la fonte primaria di pratiche di governo urbano: la democraticità delle assemblee di quartiere, la “comunione” dei servizi essenziali, il ripensamento del tessuto edilizio in senso ecologista, la ri-pubblicizzazione di spazi urbani inutilizzati ecc.
Il nuovo municipalismo che trae la sua origine quasi ideale dall’esperienza curda, è un modello di resistenza e di buona pratica allo stesso tempo: resistenza alle politiche centrali fallimentari, all’austerity e al neoliberismo mondiale, ma anche alle pessime pratiche locali precedenti, che di questi dettami economici erano (e sono) il braccio esecutivo. Nell’esempio delle città curde, per anni governate da sistemi centralisti corrotti e spietati, le forze civico-politiche che si candidavano a governare queste città europee hanno iniziato a vedere un modello riadattabile, ma sopratutto funzionale!
In ultimo – ma non in ordine d’importanza – la questione dei flussi migratori che sopratutto la guerra in Siria ha rimesso in moto verso l’Europa. La Turchia oggi beneficia di un accordo del valore di 6 miliardi di euro con l’UE per tenere i rifugiati che scappano dalla guerra siriana entro i propri confini, per non farli nemmeno arrivare su suolo europeo. Migliaia di uomini e donne a cui è negato il diritto di libera circolazione, costretti a stazionare in un paese con un governo dispotico e intollerante, qualora non deportati dopo un periodo di attesa potenzialmente lunghissimo all’interno dei campi profughi in Europa. Uomini e donne che proprio noi, i nostri Comuni europei, le nostre realtà locali, potremmo accogliere in maniera equilibrata e redistribuita con il minimo impatto sociale, ma al prezzo di salvare la vita e la dignità di interi popoli in fuga.
Alla luce di tutto ciò, come potremmo non sentire questa immensa questione come nostra? Come potrebbe una realtà come Officine Civiche, che si vuole far carico del miglioramento della vita della nostra comunità locale, non scendere convintamente in piazza a sostegno di un modello politico, culturale e socio-ambientale che sembra mostrare una strada di convivenza, pace, rispetto della vita umana, non solo nel contesto mediorientale ma anche all’interno dei nostri confini europei? La democratizzazione delle nostre città, l’idea di beni comuni e di rinnovamento dei modelli economici in senso ecologista, la solidarietà come strumento di risoluzione dei conflitti culturali nel mondo globalizzato, sono valori imprescindibili per noi e per il nostro modo di intendere l’attività sul territorio. Oltre a ciò, ovviamente, sentiamo la necessità di una pace e un futuro di convivenza nello scenario globale, con un nemico che oltrepassa i confini della guerra in Medio Oriente e arriva a colpire nelle città europee come è successo a Parigi e Bruxelles. Se questo nemico supera i confini, noi dobbiamo saperli superare meglio e con quelle che noi consideriamo le uniche armi: il nostro attivismo, la nostra solidarietà attiva, il nostro impegno nel non lasciare i più giovani nelle grinfie del fanatismo o delle mafie, le nostre voci e la forza che abbiamo, tutti insieme, di cambiare questo mondo a partire dalla realtà che viviamo tutti i giorni.
L’appuntamento è per il primo pomeriggio di sabato 24 settembre in piazza di Porta Pia, a Roma. Con le altre realtà cittadine ciampinesi che parteciperanno e con chiunque voglia partire con noi da Ciampino, ci vediamo alla stazione Fs in piazza L. Rizzo alle ore 14.00.
Evento facebook: https://www.facebook.com/events/1420836301277649/