Una politica di strada contro i ghetti e per l’educazione popolare
Abbiamo inaugurato queste festività invernali con un’iniziativa di fine anno al Parco della Folgarella, uno degli spazi urbani più abbandonati, uno dei quartieri ciampinesi maggiormente colpiti dalla congestione urbana, dall’inquinamento, dall’aggressione dell’edilizia privata e dalla conseguente esclusione sociale. Il nostro doposcuola popolare ha svolto, negli ultimi mesi, diversi laboratori ludico-educativi in questo ed altri spazi, che come cittadini sentiamo nostri e di cui vogliamo prenderci cura, ai quali hanno partecipato anche alcune delle famiglie e dei soggetti provenienti dai contesti abitativi più fragili del territorio, in particolar modo il campo rom della Barbuta, esclusi dal tessuto sociale urbano anche per colpa degli attori politici ai vari livelli, sordi e ciechi di fronte all’emarginazione almeno quanto lo sono di fronte alle sue cause strutturali.
Tagliati fuori dal contesto urbano, fisicamente esclusi in base al pregiudizio culturale che vuole i rom “propensi” a vivere nei campi sosta. A nessuno importa che tutti gli attuali residenti della Barbuta vivevano, nei propri paesi d’origine, in case ed appartamenti, che il viaggio migratorio li abbia poi messi, sfortunatamente per loro, sulla traiettoria dell’Italia che li ha relegati nei campi mono-etnici per via della degenerazione politica del vecchio discorso sul nomadismo, che questi rom non hanno mai praticato in vita loro. E’ il trionfo dell’apartheid in Italia, il ghetto su base etnica come modello in vigore per decenni, e tutt’oggi ritenuto valido nei fatti dalle amministrazioni di tutti i colori politici, anche quelle che dicono di voler superare i campi ma attuano le stesse strategie ghettizzanti che reiterano il modello etnocentrico e spostano l’oggetto della questione solo sull’aspetto del decoro urbano. Come se fosse possibile ottenere decoro in un regime di esclusione e pauperizzazione di un intero gruppo umano, colpevole solo di parlare la lingua sbagliata (ricordiamo che rom significa uomo in lingua romanes; l’unica cosa che identifica e accomuna questo gruppo è una serie di dialetti di questa lingua imparentata con il sanscrito).
Ecco perché, a Ciampino, siamo impegnati fermamente nel tentativo di portare queste persone, queste famiglie, fuori dal campo. Per noi il campo non deve esistere, la nostra è una battaglia contro l’esistenza dei ghetti, né qui né altrove. Le politiche sociali dovrebbero rivolgersi a tutti allo stesso modo, con gli stessi strumenti e le stesse opportunità, ancor più dal momento che nella Barbuta vivono sia stranieri che italiani (le famiglie di alcuni sinti vivono in Italia dal XV secolo). La trasversalità del discorso razzista dello Stato sta proprio in questa compresenza di cittadini con documenti diversi, accomunati da una “appartenenza etnica” unilateralmente dichiarata dalle autorità. Spesso questo processo di ghettizzazione viene affidato direttamente alla mediazione con sodalizi interni al campo, nati o sviluppati in ambienti legati a piccole attività economiche illegali, ai quali viene dato un potere enorme fino a trasformarli in vere malavite organizzate, la cui forza contrattuale viene data dall’autorità italiana e dalle criminalità locali. Per questo, oggi, quando qualche esponente politico (magari vicino alle varie amministrazioni colpevoli di questo processo di ghettizzazione) pronuncia facili discorsi razzisti in relazione al grave problema dei roghi tossici nella Barbuta, noi tutti abbiamo il dovere morale di sottolineare pubblicamente la loro ipocrisia.
L’obiettivo di Officine Civiche, insieme ad altre realtà associative come Zajno-Insieme che da anni si occupa della scolarizzazione nel campo (dai tempi in cui queste famiglie vivevano a Tor de Cenci), è quello di creare le basi per una società urbana democratica, senza ghetti, attraverso l’impegno per un’educazione popolare per i minori e gli adulti, che non conosca differenze di provenienza culturale o di condizione abitativa. In particolare, tramite il progetto “DoPòLiS: Doposcuola Popolare – Laboratori per l’Inclusione Sociale”, siamo impegnati nella realizzazione di attività sociali con diverse famiglie del territorio, tra cui alcune residenti alla Barbuta. Realizziamo laboratori ludico-educativi con grandi e bambini, interagiamo con le famiglie per sostenerle nelle quotidiane battaglie con la burocrazia, l’indifferenza e l’emarginazione scolastica. L’obiettivo finale è la conquista dell’autonomia, lo scardinamento del modello di dipendenza assistenziale, concretizzando l’esempio di educazione attiva che ribalta i ruoli classici di educatore ed educando, agendo nella pariteticità di questi ultimi attraverso la costruzione della consapevolezza e del pensiero critico.
Siamo solo all’inizio di questo percorso ma crediamo sia l’unica strada percorribile per preparare dignitosamente la strada d’uscita dal campo, in attesa di un definitivo superamento finora attestato solo a parole. La creazione di una rete tra realtà organizzate è fondamentale per affrontare un problema radicato e gigantesco, che coinvolge tutti i cittadini del territorio, in una spirale di emarginazione, nuove povertà, disagio abitativo, ma anche indifferenza, assenza di una vera solidarietà di classe, rancore, xenofobia, razzismo. Questa rete sociale, che travalica i confini comunali, agisce caparbiamente nonostante la gravissima assenza di spazi pubblici e gli impedimenti alla partecipazione civica di cui soffre la città. Quello che bisogna fare è tornare alla Politica con la P maiuscola: riappropriarci della vocazione sociale, pedagogica-tra-pari, non depositaria ma indagatrice riguardo i problemi del mondo. Sostenere che il ruolo delle realtà progressiste sia solo quello di combattere i razzisti, è un’illusione che un tempo avremmo definito borghese. Ma al contrario, sostenere che il ruolo della politica sia solo quello di ottenere un sistema di giustizia sociale di per sé, a prescindere dal contesto politico-culturale, e che una volta ottenuto un welfare universale il razzismo verrà automaticamente privato della sua ragion d’essere, è altrettanto un’illusione.
Il razzismo ha radici culturali, non appartiene né alla natura né all’economia. Pensiamo alla crisi della socialdemocrazia europea o peggio alle guerre etniche all’indomani della dissoluzione della Jugoslavia titina. In entrambi i casi si diceva che la forza livellatrice dell’eguaglianza economico-sociale avrebbe permesso alle diversità di convivere, nel nome degli interessi nazionali o di classe, e per decenni ha funzionato! Poi è arrivata la fine del Comunismo a est, è arrivata l’immigrazione di massa a ovest, ed è stato il disastro etnico e nazionalista. Il risultato di queste due contingenze è racchiuso magistralmente proprio in un campo rom. Se nessuna azione culturale dirompente, scomoda, sovversiva, interviene nella costruzione politica delle identità collettive, allora il razzismo prende piede anche nel più egualitario dei sistemi. Basta una scintilla, lo sappiamo bene…
Da queste consapevolezze si muove l’azione delle nostre carovane educative, quelle che ci piace chiamare Brigate di Educazione Popolare, che stanno agendo a Ciampino in tanti contesti diversi, nei quartieri ma anche nel dialogo con le scuole e con gli enti di aggregazione civica del territorio. La nostra non è un’azione neutra, è un atto politico nel senso più ampio del termine. Una pedagogia partigiana, con un obiettivo di riscatto sociale che non può prescindere dall’azione culturale in tutto il territorio, non può prescindere dalle battaglie e dalle vertenze per l’ambiente e per il patrimonio, e non può prescindere nemmeno dalle sfide del cambiamento dal basso verso l’alto, nei luoghi delle Istituzioni. Dare voce alle esigenze popolari, per noi, è un atto indispensabile che richiede un costante dialogo con quel popolo inteso come classe sociale, non come soggetto etnico-nazionale uniforme, rappresentato da persone che magari hanno un documento diverso in tasca, ma gli stessi identici bisogni e le stesse identiche rivendicazioni.