Camminare domandando (a modo nostro)
Continueremo a camminare domandando, dicono gli zapatisti del Chiapas. Perché i nostri passi, il nostro prenderci cura dei luoghi, il nostro seminare, il nostro educare ed educarci, sono i gesti della concezione di un avvenire più giusto. L’otto dicembre, là dove il tracciato dell’Appia Antica esce dal territorio romano, alcune decine di residenti, bambine/i, adolescenti e famiglie delle classi popolari del territorio, si sono ritrovate insieme per camminare, per piantare, per imparare, per reclamare beni e spazi che sono stati sottratti alla comunità dall’abbandono.
Una pacifica invasione che ha quasi voluto omaggiare le invasioni che le nostre comunità facevano oltre cento anni fa per domandare l’utilizzo di queste stesse terre lasciate incolte da proprietà assenteiste. Negli ultimi decenni, anche grazie all’istituzione del Parco dell’Appia Antica, molte di quelle terre sono tornate nella disponibilità degli enti pubblici e nell’uso delle comunità. Con l’ultima estensione del Parco regionale dei Castelli romani, ottenuta grazie alle lotte di quei movimenti che hanno camminato ancora una volta insieme, l’area protetta si è ricongiunta finalmente con il Parco dell’Appia Antica. Lo fa nei territori di Ciampino e Marino, includendo le tenute dell’argine del Divino Amore e del Muro dei Francesi. Le stesse terre che un secolo fa venivano reclamate dai contadini poveri del luogo beneficiari degli usi civici su queste tenute, e che oggi le lotte comunitarie hanno sottratto alla speculazione edilizia.
Queste comunità credono sia giunto il tempo di fare un ulteriore passo. Il Muro dei Francesi, il tracciato dell’Appia Antica tra VIII e X miglio, i corsi d’acqua del territorio, gli innumerevoli beni patrimoniali, le terre demaniali, tutto ciò che rientra nella vasta questione del suolo disponibile ma sottratto alla collettività, in sostanza la questione del territorio come bene comune, non può più essere solo “difeso” ma va riconquistato. La battaglia difensiva e di posizione deve diventare arrembaggio, pacifico ma più che mai determinato. Non basta cercare di salvare i beni comuni dal cemento – battaglia che a volte si vince ma spesso e volentieri si perde – e non bastano nemmeno i vincoli: un pezzo di suolo privatizzato o abbandonato, anche se posto sotto tutela formale, resta un furto alla collettività. Occorre un passo in avanti verso la piena fruibilità pubblica.
Tra le persone che l’otto dicembre hanno camminato insieme per far vivere quel fazzoletto di terra pubblica, c’erano anche famiglie in emergenza abitativa, persone sfrattate da casa, che vivono in situazioni precarie o senza residenza. Alcune vivono nel territorio di Roma Capitale, nelle sue borgate, altre a Ciampino e nelle frazioni di Marino. In questi stessi giorni, sia in Campidoglio che al Comune di Ciampino si sta discutendo proprio di diritto alla residenza, in entrambi i casi per via della possibilità di agire in deroga all’articolo 5 del piano casa Renzi-Lupi, dando alle persone occupanti i diritti che semplicemente spettano loro e che una norma ingiusta tiene bloccati. Ma se a Roma l’iter si è appena concluso – è stata firmata in queste ore la circolare applicativa -, a Ciampino ancora non sappiamo se il Consiglio approverà o meno una mozione presentata dal gruppo di Diritti in Comune. Per questo, insieme ad alcuni sindacati e movimenti per il diritto all’abitare, abbiamo firmato un appello e poi organizzato un confronto pubblico sul tema il 12 dicembre scorso.
Tra i molti aspetti importanti usciti da quel confronto pubblico c’è stata l’analisi delle difficoltà del diritto alla residenza a diventare un tema di massa, in grado di indignare chi sta anche solo un gradino sopra gli ultimissimi. Soprattutto sul nostro territorio, l’approccio piccolo-proprietario è ancora il pilastro attorno al quale si sviluppa tutto l’impianto ideologico del dibattito sulla casa, impedendo di focalizzare il semplice diritto soggettivo in quanto tale. Questo ha una storia antica, che parte proprio dal modello politico nato dalle rivendicazioni per la terra, che quaggiù sono sempre state lotte per la parcellizzazione e mai per la socializzazione, con il contributo di quelle stesse forze politiche di tradizione operaia e popolare che hanno poi traslato questo approccio alle politiche di pianificazione urbana e abitativa.
Oggi si tratta di rompere una catena: quella secondo cui gli ultimi di ogni epoca e latitudine, emancipandosi, adottano il modello rivendicativo del gruppo sociale che li accoglie, le cui rivendicazioni hanno già prodotto un diritto consolidato. Ciò accade quando i corpi intermedi del blocco popolare si limitano a rappresentare sempre lo stesso pezzetto di società pur nell’avanzare della sua condizione, senza riuscire a comprendere le esigenze degli strati sociali che restano indietro. Così, nei primi del novecento, i bifolchi della classe bracciantile nella campagna romana venivano indotti dalle stesse leghe contadine ad abbandonare le pretese di uso comune sulle terre, per abbracciare la lotta per ottenere un “pezzetto di terra di proprietà” portata avanti dalla classe vignarola leggermente più agiata. In un processo a catena, decenni dopo, chi lottava per i propri diritti abitativi di residente povero, raggiunta una certa stabilità, ha speso le sue energie per partecipare alla torsione piccolo-proprietaria del cooperativismo edilizio. E così via.
Interrompere questo moto perpetuo significa creare nuovo senso comune, dar vita a strutture di potere popolare senza rinunciare ad egemonizzare il potere costituito, come ci insegnano proprio i momenti più luminosi delle lotte del passato su questo territorio. Questo non è il Chiapas, non vogliamo nemmeno far finta che lo sia. Le storie conflittuali della nostra terra ci mostrano le strade percorribili e gli errori da non ripetere, per questo riteniamo da sempre importante conoscere la nostra storia recente e lontana. Cammineremo domandando, lo faremo a modo nostro, ma sempre insieme agli ultimi, ai bifolchi, ai nessuno e ai senza voce della nostra terra.