Città post-covid: Come la pandemia ci costringe a ripensare i modelli urbani
Le città restano la più grande invenzione dell’uomo, perché è qui, nel corso della storia, che le persone e le economie, le culture s’incontrano. Sono un organismo vivente, un motore e noi siamo i suoi ingranaggi. Quando questi meccanismi iniziano ad incepparsi ecco pronte le conseguenze politiche, economiche, sociali, industriali o igienico-sanitarie.
Oggi le città ci appaiono drammaticamente in crisi, soprattutto nelle grandi conurbazioni, per la progressiva scomparsa del necessario equilibrio tra Uomo e Natura. La pandemia non ha fatto altro che far balzare agli occhi di tutti questa difficile e diffusa condizione degli habitat umani. Gli impatti della pandemia globale Covid-19 sembrano ancora non molto chiari eppure siamo già sicuri che lasceranno il segno in noi e nelle nostre città. Il mondo della pianificazione territoriale e urbana è stato sempre costruito da risposte ad eventi storici, calamità naturali, tendenze culturali, crisi economiche e scoperte tecnologiche. Per intenderci, allo stesso modo in cui, quando una pandemia sconosciuta si abbatte sulla popolazione c’è bisogno di studiarla per trovare un vaccino, allo stesso modo quando le città subiscono una crisi, si studiano modelli e regole strategiche per progettare il territorio del futuro.
Così è stato fatto anche in passato, basti pensare alle passate pandemie globali come il Colera nel XIX secolo, che ha portato l’introduzione di norme e regole igienico-sanitarie nelle città che oggi ci appaiono del tutto normali, ma ai loro tempi furono studiati accuratamente da urbanisti, architetti, studiosi e ricercatori. Per esempio, le infrastrutture grigie (reti di trasporto), sono tra le maggiori responsabili della congestione delle nostre città, che si sono man mano espanse senza soluzione di continuità al di là dei propri confini amministrativi, sino a raggiungere le campagne, consumando suolo e saturando territorio.
Fortunatamente lo sviluppo tecnologico ha favorito, negli ultimi anni, un modo diverso di porre il relazione città e comunità. In questo caso con il lockdown la pratica dello Smart Working è diventata una necessità, ovviamente per coloro i quali possono permettersi di esercitarlo. Questo fattore ha innescato una serie di dibattiti su come e quando le città dovranno essere ripensate e gestite in futuro. Sicuramente gli aspetti inerenti alla sviluppo tecnologico e la divulgazione delle reti digitali ci permettono di accorciare le distanze e accedere ai servizi in forma veloce, riducendo gli spostamenti e la mobilità privata, con la relativa riduzione nella produzione degli inquinanti atmosferici. Ma anche il distanziamento sociale ci impone di ripensare al sistema del trasporto collettivo, evitando di far prevalere il ricorso al trasporto privato su gomma. Una mobilità leggera e competitiva è tra le questioni prioritarie che molte amministrazioni si stanno ponendo nel post Covid, liberando spazio pubblico dal predominio delle auto, a favore di pedoni e ciclisti.
Ma le città, sono anche il motore dei beni e servizi della popolazione. Se da una parte, questo accesso è considerato “normale” e “usufruibile” per tanti, dall’altra parte sono troppi quelli che ancora non hanno anno accesso ai beni e servizi di prima necessità e addirittura in determinate condizioni sociali e territoriali, c’è chi ancora non può nemmeno godere del diritto di una casa. Il lockdown in questo senso è stato ulteriore indicatore delle profonde diseguaglianze che segnano le nostre società. Anche qui resistere 40 giorni in casa in una villa con piscina, non è la stessa cosa che farlo in un monolocale a San Basilio. La risposta di fornire l’accessibilità al servizio urbano, territoriale, strutturale, sociale, economico o sanitario, deve essere la prima priorità dell’urbanistica. Anche qui il Covid ha posto in tutta la sua drammatica evidenza il tema dell’accesso ai servizi territoriali, a partire da quelli socio-sanitari. Può nel post Covid ancora trovare spazio il principale strumento di disciplina dello sviluppo urbano e della pianificazione territoriale, lo zoning, che vincola l’uso del suolo a destinazioni prefissate (residenza, industria, commercio, servizi), settorializzando forme e funzioni delle nostre città?
Anche qui la pandemia sta trasformando e trasformerà la concezione dello spazio e delle funzioni delle nostre città e molti amministratori locali, architetti e urbanisti sono già alla ricerca di nuove suggestioni progettuali in grado di orientare lo sviluppo urbano del prossimo futuro. Una delle proposte che da subito hanno avuto molto seguito è quella della “città dei 15 minuti”, proposta dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo e fatta propria anche dalla città di Milano, nel documento Milano 2020. La proposta vuol fare in modo che ogni cittadino possa raggiungere in quindici minuti di distanza, a piedi o in bicicletta, i servizi necessari per mangiare, divertirsi e lavorare. La città dei 15 minuti deriva dal concetto di unità di vicinato, elaborato per la prima volta nel 1923 in un concorso nazionale di architettura di Chicago, come proposta di assetto per costruire nuovi quartieri residenziali compatti. Si riteneva infatti che la prossimità tra servizi, attrezzature pubbliche e abitazioni potesse costruire comunità dotate di una riconoscibile identità sociale e culturale di scala locale, in grado di contrastare l’anonimato tipico delle grandi città.
Tale proposta si inseriva nel dibattito nato all’inizio del Novecento in molte aree metropolitane nordamericane, su come contrastare la crescita delle principali città industriali che, con l’avvento della motorizzazione di massa, rischiavano di espandersi in modo incontrollato e di generare anonime e sempre più lontane periferie. Oggi proprio l’aspetto della densità urbana delle nostre città non ci permette di fornire una risposta efficace e pronta alle esigenze dei cittadini e delle comunità, perché si è costruito irrazionalmente per anni, secondo una bulimia edilizia governata unicamente dalla rendita fondiaria privata, senza pensare a quello che sarebbe potuto accadere.
Anche in questo caso il Covid ci pone davanti la consapevolezza di dover fornire un metodo resiliente per progettare il territorio del futuro e dovrebbe farci rendere conto che abbiamo bisogno di una pianificazione integrata, per lo meno a livello di Città Metropolitana, in grado di trovare un necessario riequilibrio tra aree forti – urbane – e aree marginali – centri minori, paesi, borghi – verso una esperienza progettuale di “città nella natura”. Il legame tra le città e i centri minori, in molte parti d’Italia negato e rimosso, significa tutelare i “corridoi ecologici”, le infrastrutture della natura, come fiumi, torrenti, laghi, vallate, in pratica quell’insieme di habitat, tra di loro interconnessi, che mantengono insieme biodiversità, equilibrio ambientale e paesaggio di un territorio. Più campagna per le città, più ecologia per tutti, più ossigeno e aria pulita, meno concentrazione urbana-metropolitana, più diradamento edilizio con “intervalli” ecologici, per riabitare i centri minori anche con l’aiuto della tecnologia e il telelavoro. Questo dovrebbe essere il fulcro di ogni programma amministrativo per chiunque voglia candidarsi a governare la propria città.