L’Appennino che non si arrende
L’Aquila 2009, Emilia Romagna 2012. E poi il ventiquattro agosto 2016, il trenta ottobre, il diciotto gennaio 2017. Amatrice, Norcia, Arquata del Tronto, Accumoli. L’Appennino centrale trema e forse continuerà a tremare. E’ già successo in passato, siamo in un’area dalla forte sismicità, una zona d’Italia dove popolazioni millenarie di montanari hanno sempre combattuto contro gli eventi cataclismatici della natura. Solo che nei secoli passati il cemento armato non era ancora un affare milionario e pertanto c’erano pochi abusi edilizi a peggiorare una situazione senza dubbio già fortemente critica. Il sistema economico e affaristico malato si fa sentire di più, ogni volta che c’è un evento naturale di per sé terrificante e imprevedibile.
E’ francamente impossibile addossare tutte le colpe su questa o quella situazione attuale, anche perché un terremoto è un terremoto ed è difficile che una scossa forte in un territorio di montagna non faccia danni. Resta il fatto che oggi nelle zone dell’Appennino centrale si contano i morti, la gente è senza casa e l’intero tessuto produttivo dei Comuni, basato quasi interamente su agricoltura e microturismo, è crollato. Sisma e neve, slavine e scosse, freddo e case polverizzate. Sembra una congiura dell’Altissimo, per parafrasare il Sindaco di Amatrice, esasperato. Eppure la mano dell’uomo c’ha messo del suo. E’ nota ormai a tutti l’immagine dell’hotel di Rigopiano costruito proprio sotto il canale roccioso che si forma all’incastro delle due imponenti montagne. Fa paura solo a guardarlo. Una maxi-struttura di 4 piani adibita ad ospitare persone, costruita in barba alle norme più elementari di rispetto dei luoghi e, di conseguenza, della sicurezza umana. Una trappola mortale a orologeria. Così come trappole sono la maggior parte delle case costruite senza criteri antisismici in zone sismiche o, peggio ancora, i nuovi quartieri fatti di palazzine tirate su alla meno peggio nelle zone periferiche dei comuni di montagna, o lungo i fiumi, a ridosso della costa…
Tutto ciò non è un mistero, sono anni che quanti denunciano gli abusi edilizi e la mancata messa in sicurezza del territorio vengono scherniti e accusati di essere il “popolo dei no”. Salvo poi le lamentazioni delle autorità in pompa magna ai funerali e alle ricorrenze. Non sarà questa la sede, ripeto, dove sottolineare le negligenze dello Stato, anche perché dello Stato fanno parte pure tutti quei valorosi e sottopagati pompieri, soccorritori e agenti che lavorano in condizioni vergognose al salvataggio delle vittime e fanno da contraltare agli altrettanto numerosi colletti bianchi e alte uniformi che hanno sottovalutato, speculato, ignorato e taciuto. Eppure, in questi giorni difficili, sull’Appennino c’è anche dell’altro. Un altro modo di ricostruire e di ripensare il futuro di questi luoghi, un modello alternativo di recupero materiale e valoriale sta prendendo piede in quei territori, proprio a margine di uno dei più drammatici macro-eventi naturali della storia d’Italia.
Sull’Appennino centrale nascono come funghi iniziative collettive con l’obiettivo di salvare e recuperare, procedendo in modo diametralmente opposto rispetto al modello produttivo che, per forza di cose, è complice di quel dissesto del territorio che emerge drammaticamente quando c’è una catastrofe naturale. Si tratta in realtà di un modello che ripesca a piene mani dalle pratiche passate di queste montagne, dove nei secoli scorsi proliferavano le “comunanze agrarie”, cioè sistemi di comunione delle terre per l’agricoltura, ma anche mutuo soccorso, autorganizzazione, protezione del territorio. Sistemi simili oggi, nelle Marche, in Abruzzo e nell’alto Lazio, non solo resistono al passare degli anni ma stanno rinascendo nei giorni successivi al sisma, come metodo di collettivizzazione degli oneri e delle spese nonché della ricostruzione di aziende agricole e cooperative fallite sotto gli effetti a medio termine del terremoto. Il dramma degli animali, fonte di sostentamento per centinaia di imprese e famiglie, sotto la neve a seguito del crollo delle stalle, è stata una delle principali scintille che hanno dato vita al recupero di simili pratiche. Lo stesso vale per le attività di trasformazione degli alimenti a seguito dei danni ai laboratori artigianali, numerosi in queste zone.
E’ il caso della Bolognola, paesello di 150 abitanti in provincia di Macerata. Subito dopo il sisma del 24 agosto, la sindaca di Bolognola ha deciso di intraprendere una battaglia per concedere ai piccoli produttori di formaggi e salumi la possibilità di operare in casa o in laboratori domestici, visto che i vecchi laboratori “a norma” sono inagibili per legge. Da questa esigenza è nata una collaborazione del Comune con una serie di realtà alternative, locali e non, vicine alla rete Genuino Clandestino che da anni si occupa di sburocratizzare l’agricoltura di sussistenza in Italia. Grazie all’aiuto di queste realtà oggi i produttori possono continuare a lavorare, ma nel frattempo le continue scosse non aiutavano l’economia locale e il paese si stava spopolando. Così è nata l’idea di costruire stalle e laboratori collettivi (su strutture ultraleggere di legno, con criteri antisismici di una volta) dove gli animali avrebbero avuto riparo e tutti i produttori avrebbero potuto lavorare dandosi sostegno reciproco. Tantissime realtà in tutta Italia, da nord a sud, hanno aderito al “soccorso contadino” con raccolte fondi e aiuti pratici per Bolognola e tutt’oggi continua il duro lavoro per realizzare quello che appare come un esempio di riscatto di queste persone in cerca di un modello economico sostenibile e solidale dopo il sisma.
Nell’epicentro del terremoto di agosto, nei dintorni di Amatrice, ci sono i campi e le tendopoli dove vivono gli sfollati in attesa di una nuova casa. E’ da queste parti che opera un’altra rete solidale ormai nota, le Brigate di Solidarietà Attiva, nate in occasione del terremoto in Abruzzo del 2009, in seguito impegnate soprattutto al fianco dei braccianti a Foggia ed oggi attive più che mai nelle zone colpite dal sisma. Le BSA – con le quali Officine Civiche insieme ad altri ha collaborato in occasione della raccolta di beni di prima necessità per le zone terremotate – gestiscono insieme ad alcune associazioni un campo-base, Scossa Solidale, dove i sistemi incancreniti della burocrazia e dell’assistenzialismo tipici di situazioni simili, non entrano. I volontari insieme ai cittadini dei paesi sfollati fanno assemblee e decidono il da farsi giorno per giorno, si auto-organizzano e gestiscono la loro vita e le loro attività. Si danno da fare per ricostruire un futuro in queste zone, ma cercano anche di studiare e comprendere la situazione sotto tutti i punti di vista. Anche per questo, nei giorni scorsi, sono nate manifestazioni di protesta e comitati spontanei contro l’abbandono da parte delle istituzioni regionali e statali, sull’opacità dell’assegnazione delle case, contro la burocrazia asfissiante. Le BSA oggi operano su un’area molto vasta, dall’Umbria al cuore dell’Abruzzo, con l’intento di produrre mutuo aiuto e di mantenere vivo quel tessuto unitario delle comunità che è importante non disperdere in situazioni del genere.
Sul sito web di uno dei comitati spontanei nati nelle tendopoli, i Montanari Testoni, si legge: “Se sono una Montanara Testona è perché da Norcia o Cascia non mi muoverò, se non prima di aver provato a sperimentare un nuovo modo di vivere nelle nostre Città, per inventare insieme cosa è meglio per noi che viviamo e vivremo qui (…) Noi riconosciamo a tutti i cittadini di qualsiasi origine, estrazione e cultura il diritto a difendere e valorizzare lo spazio di tutte e di tutti”. Concetti semplici da dare come risposta a coloro i quali speculano in questi giorni sulla tragedia, contrapponendo le persone tra loro o intestandosi un impegno (reale solo sulle pagine dei giornali) dopo aver devastato per anni il territorio. Da una parte le bufale e lo sciacallaggio mediatico, dall’altra l’abbandono istituzionale e la passerella politica. In queste zone come altrove, ne siamo consapevoli, alcune persone ci provano non senza difficoltà e non senza incontrare resistenze anche all’interno della cittadinanza stessa. Il dramma del sisma non basta a cancellare dinamiche e rapporti che i poteri economico-politici infestanti sui territori hanno costruito nei decenni: una metastasi fatta di clientele, cemento, monopoli, privatizzazioni, rendite e malagestione della cosa pubblica. I territori colpiti dal sisma soffrono delle stesse malattie di tutti i territori d’Italia, soprattutto le zone ricche e appetitose come questi meravigliosi borghi, le loro montagne e le loro risorse umane e naturali. Ciò nonostante, le buone pratiche che si accavallano e si moltiplicano da dopo il sisma forse dimostrano che una breccia si è aperta, insieme alla spaccatura della terra, per far fuoriuscire rabbia e voglia di fare, consapevolezza e necessità di cambiare modello di vita nelle città, di ripensare il territorio circostante, di produrre ricchezza in modo sostenibile e sicuro. Una sola cosa è certa, anche grazie a queste esperienze dal basso, grazie a collettivi, sindaci, agricoltori, comitati, ristoratori, micro-birrifici, cooperative sociali, amministratori locali, da domani questi territori saranno più forti di ieri, più consapevoli e in grado di insegnarci tanto.