Rifare le fondamenta
Mai come negli ultimi decenni la questione ambientale sta assumendo una dimensione sempre più drammatica per il futuro del pianeta, con il progressivo venir meno degli equilibri ecologici e soprattutto con il profilarsi di mutamenti climatici dagli esiti globali imprevedibili. Da circa duecentomila anni abbiamo trovato il modo di umanizzare ogni singolo ecosistema, di nominare e sottomettere le cose, di predare altre specie, di elevare l’umanità a padrona assoluta del tutto. Esseri antropocentrici è diventata per noi una necessità, più che una virtù.
Negli ultimi quattro cinque secoli poi l’antropocentrismo è stato declinato in termini di capitalismo, come principio regolatore dominante delle relazioni sociali fra gli uomini, con l’alienazione e lo sfruttamento del lavoro umano, la concentrazione dei poteri e l’accumulazione dei profitti e della ricchezza. E tanti di noi sono diventati di Sinistra perché non ci rassegnavamo allo stato di cose presenti, volevamo impegnarci per combattere oppressioni e sopraffazioni intorno a noi, quelle di classe, di genere, di cultura, di nazione. Purtroppo dobbiamo riconoscere che anche molte di quelle lotte di liberazione erano ispirate da una visione antropocentrica, incentrata sulla supremazia del lavoro rispetto all’ambiente o sulla redistribuzione della ricchezza rispetto all’uso illimitato delle risorse naturali.
Ora che la stessa natura violentata risponde con schiaffi drammatici alla crisi ambientale, le previsioni catastrofiche ormai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. E’ un mondo in preda al disordine politico e climatico quello che abbiamo davanti, un mondo assetato e affamato, inondato dal mare e sovrappopolato, che spinge centinaia di milioni di ecoprofughi verso le mortali frontiere marine e il filo spinato delle frontiere terrestri dell’Unione europea.
L’allarme lanciato da scienziati ed esperti climatici dovrebbe condurre le istituzioni a tutti i livelli alla ricerca di una soluzione all’impronta antropica globale nel breve periodo che conduca a salvare il futuro della vita tale sulla Terra. Abbiamo raggiunto il confine di sostenibilità per il finito ecosistema planetario, con estinzioni di massa e crescenti sconvolgimenti migratori di varie specie, con il crescente aumento delle temperature, dovuto all’effetto serra che continua a mettere in serio pericolo la stabilità degli ecosistemi, dei sistemi sociali e della vita sul nostro Pianeta.
“Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro”. E’ la forte esortazione rivolta a credenti e non credenti da Papa Francesco nell’enciclica Laudato Si. Siamo consapevoli che la crisi che sconvolge l’impianto economico e produttivo del mondo globalizzato da quasi un decennio, non può trovare soluzione se non nella prospettiva di conversione ecologica dell’economia e della società, in cui ridare valore e senso alle parole ambiente, lavoro, uguaglianza, solidarietà, democrazia.
Quella che Papa Francesco chiama “ecologia integrale”: «…l’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale» dice Francesco (n. 48). Per questo l’invito ad «…integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (n. 49). «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura». (n. 139).
Quello della riconversione ecologica non può essere dunque nell’orizzonte del nostro agire politico un tema tra gli altri, ma un tratto d’identità con il quale misurare il nostro impegno civico e sociale, la nostra ambizione di cambiamento a cominciare dal territorio e dalla città in cui viviamo. Proprio il modello di sviluppo e di crescita incontrollata delle città dell’ultimo secolo hanno prodotto in modo più evidente il fallimento del paradigma antropocentrico, dove l’avanzare della crisi climatica insieme a quella economica, ha prodotto alti tassi di disoccupazione, specie giovanile, con una crescente difficoltà a promuovere coesione ed inclusione sociale.
Occorre dunque ripartire dalle fondamenta per superare la crisi e costruire un nuovo futuro. Fondamenta di una rinnovata alleanza sociale, civile e democratica, costruita all’altezza delle questioni che la crisi ci pone e connessa alle esperienze progressiste più avanzate dell’Europa e del mondo. Legalità, diritti, ecologia devono tornare ad essere le fondamenta di un nuovo modello urbano dove a prevalere siano bellezza, equità, democrazia. E la buona politica ha necessità di ripartire proprio dalle città, dai grandi agglomerati urbani come dalle piccole città di frontiera. In primo luogo perché il mondo sta vivendo una rapida urbanizzazione: nel 2050, il 75% della popolazione urbana vivrà in città. In secondo luogo, le pressioni globali che si sviluppano al livello del tessuto cittadino, dai cambiamenti climatici, alle pressioni socio-economiche, aprono nuove sfide e incertezze.
Ripartiamo dunque da qui per scrivere la nostra agenda del cambiamento. L’integrazione fra qualità ecologica, sociale ed economica traccia l’unica via possibile per un futuro sostenibile, a partire proprio dalle nostre città. Occorre ripartire dalla qualità ecologica delle città promuovendo un nuovo modello circolare di economia, che minimizza il prelievo di risorse naturali, investe nel capitale naturale, punta sul recupero il riciclo e il riuso dei materiali, accorcia e rende più sostenibili i tempi di vita e di mobilità, elimina componenti e sostanze che producono inquinamento, sviluppa l’utilizzo di materiali ecologici, abbatte i consumi di energia e ottimizza l’utilizzo e il risparmio delle risorse idriche.
In Europa sono 100 le città, tra cui Bologna, Copenhagen, Rotterdam, Barcellona, e Bratislava, ad aver già iniziato a guardare alla loro vulnerabilità ai cambiamenti climatici e hanno sviluppato ed avviato piani e strategie per crescere come città resilienti. Trasferita sul piano urbanistico, ma anche sociale, significa capacità di una città di adattarsi e crescere anche quando colpita da eventi traumatici, come alluvioni e terremoti, ma anche quando afflitta da “catastrofi non naturali” croniche come disoccupazione, povertà, immigrazione.
La città ha una missione per costruire il mondo a venire: essere l’argine culturale, sociale, fisico alla nuova deriva sovranista. Nei giorni scorsi, i sindaci di Chicago, Boston e New York – ad esempio – si sono opposti come hanno potuto agli ordini esecutivi di Donald Trump, dimostrando che c’è la possibilità di decidere da che parte stare nella sfida ai cambiamenti climatici. Sadiq Khan, sindaco di Londra, ha avuto una presa di posizione chiara dopo la Brexit dichiarando la necessità della capitale inglese di rimanere sempre crocevia di culture, approdi, partenze. Le città dialogano tra di loro come dei corpi senzienti, in continua evoluzione, capaci di innescare conflitto e capirne nelle pieghe più profonde i suoi mutamenti.
Meccanismo resiliente per definizione, la città può essere dunque il punto di partenza per una vera conversione ecologica dell’economia e della società. Il posto dove rifare le fondamenta della politica, che riprende finalmente la parola e la supremazia che le spetta.